E' un Mastro-don Gesualdo essenziale,
quasi tutto poggiato sulla potente interpretazione di Enrico Guarneri, il cui
personaggio appare a tratti meno cattivo e più umano di come viene definito
nelle stesse note di regia, quello che Guglielmo Ferro mette in scena su
adattamento di Micaela Miano in questi giorni al Bellini di Napoli. Seduto sul
letto che resterà in scena per l'intera rappresentazione, la quale si
concluderà con la sua morte, il muratore arricchito ripercorre le amarezze di
una vita spesa ad accumulare denaro e beni e a raggiungere l'affermazione
sociale. Tra passato e presente la narrazione scorre quindi sul racconto di
Gesualdo in prima persona, un uomo che guardandosi attorno non riesce a vedere
altro che ciò che ha speso per acquistare ciò che lo circonda. Sposa Bianca
Trao (Francesca Ferro), nobile decaduta, per conquistare un titolo nobiliare (pressato
del traffichino canonico Lupi, interpretato da Rosario Minardi), ma non scorge
in lei alcun sentimento. Così come non lo scorge nella figlia Isabella (Maddalena Longo Chiavaro),
che non rivolge a lui parola alcuna, se non per scusarsi quando trasgredisce i
suoi ordini. L'unica apertura sarà rappresentata da un veloce abbraccio con
quest'ultima sul finale.
Gesualdo si è fatto da solo, col sudore della sua fronte, senza lasciare mai spazio ai sentimenti, anche se qua e là sembra essere propenso a voler aiutare chi è in difficoltà. Gelido è il suo disinteresse verso i due figli avuti dalla fedele serva Diodata (Nadia De Luca), l'unica ad anelare le sue carezze. Tra un'imprecazione e l'altra arriva la sua fine, quando si premura di insegnare a Isabella soltanto come proteggere la roba che lui si è guadagnato. Chiede poi di tornare nella sua terra a morire, al termine di un'esistenza che ha dimostrato quanto sia difficile scavalcare le barriere sociali della Sicilia borbonica. Perché Gesualdo non è stato accettato né dalla plebe, per cui è diventato un "don" che appartiene ad un altro mondo, né dall'aristocrazia, per la quale resta il "mastro" che con la nobiltà ha comunque poco e nulla a che fare. La sua vita finisce così, tra il desiderio di fare testamento per i suoi figli non riconosciuti e lo scherno e il sollievo davanti alla sua morte di un servo dalla capigliatura spiccatamente posticcia.
Gesualdo si è fatto da solo, col sudore della sua fronte, senza lasciare mai spazio ai sentimenti, anche se qua e là sembra essere propenso a voler aiutare chi è in difficoltà. Gelido è il suo disinteresse verso i due figli avuti dalla fedele serva Diodata (Nadia De Luca), l'unica ad anelare le sue carezze. Tra un'imprecazione e l'altra arriva la sua fine, quando si premura di insegnare a Isabella soltanto come proteggere la roba che lui si è guadagnato. Chiede poi di tornare nella sua terra a morire, al termine di un'esistenza che ha dimostrato quanto sia difficile scavalcare le barriere sociali della Sicilia borbonica. Perché Gesualdo non è stato accettato né dalla plebe, per cui è diventato un "don" che appartiene ad un altro mondo, né dall'aristocrazia, per la quale resta il "mastro" che con la nobiltà ha comunque poco e nulla a che fare. La sua vita finisce così, tra il desiderio di fare testamento per i suoi figli non riconosciuti e lo scherno e il sollievo davanti alla sua morte di un servo dalla capigliatura spiccatamente posticcia.
La scenografia scarna di Salvo
Manciagli lascia il centro alle videoproiezioni, accompagnate dalle godibili
musiche di Massimiliano Pace e dalle luci spesso deboli e soffuse. Potente e
straripante, dicevamo, la recitazione di Enrico Guarneri, ma talvolta anche un
tantino affettata e troppo impostata per restare vicina al naturalismo di Verga.
Accanto a lui una compagnia all'altezza (oltre ai già citati ci sono Vincenzo
Volo, Rosario Marco Amato, Pietro Barbaro, Giovanna Centamore e Giovanni
Fontanarosa) ma che scivola inevitabilmente in secondo piano, fatta eccezione
per un'attrice di razza come Ileana Rigano nei panni della baronessa Rubiera.
Tratto dal secondo romanzo del
ciclo dei vinti di Giovanni Verga, pubblicato nel 1889 dopo sette anni di
gestazione, questo racconto di un muratore che sacrifica ogni affetto per la
sua roba e che finisce in balìa della sua aridità viene messo in scena da
Guglielmo Ferro per omaggiare suo padre Turi, che ne fu interprete nel 1967. Viene
fuori uno spettacolo minimalista e accorato, che vuole apparire attuale ma
vestito con i costumi dell'Ottocento di Carmen Ragonese e vuole testimoniare
quanto il materialismo estremo renda l'uomo simile ad una marionetta senza
sentimenti, vittima dell'infelicità e del fallimento.
Cristiano Esposito
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