venerdì 21 novembre 2014

L'ultraviolenza e la massificazione del pensiero: l'"Arancia meccanica" di Gabriele Russo

Ritorna in scena al Bellini di Napoli l’"Arancia meccanica" diretta da Gabriele Russo, spettacolo tratto dal testo teatrale che Burgess scrisse a partire dal suo romanzo nel 1990 per la Royal Shakespeare Company. Umanamente inevitabile correre col pensiero prima, durante e dopo lo spettacolo, al film di Kubrick di cui Russo richiama soprattutto la violenza estetizzante, grazie anche al contributo delle musiche deformanti di Morgan, delle scene espressioniste di Roberto Crea e delle luci stroboscopiche e al neon di Salvatore Palladino. Il fascino della trama di questo capolavoro della letteratura distopica ha passato indenne il mezzo secolo abbondante di vita, cosicché il pubblico rivive sempre con interesse la storia dell'ultraviolenza perpetrata da Alex (Daniele Russo) e dai suoi drughi (Sebastiano Gavasso e Alessio Piazza) che, drogati di lattepiù, si muovono barcollando, seguita dalla cattura e dalla riabilitazione del primo con esiti sconcertanti. Burgess fu straordinario profeta capace di guardare ben oltre il suo tempo, anticipando ampiamente il controllo delle coscienze e la massificazione del pensiero. Oggi Gabriele Russo interroga il suo pubblico sulla libertà di scelta: “è meglio essere malvagi per propria scelta o essere retti ed onesti grazie ad un lavaggio scientifico del cervello?”. Alla fine dello spettacolo sembra forse aver sofferto più Alex che le sue vittime, in nome di una scienza al comando che renda disgustosa la violenza e salvi così il mondo. Ma dopo la cura Ludovico il protagonista non sa più difendersi né reagire ai soprusi, non ha più libertà di scelta né di amare, arriva a provare addirittura fastidio nell’ascolto del suo amato Beethoven. Viene issato in alto come un uomo sulla croce ai cui piedi il ministro degli interni (Paola Sambo), dietro un paio di occhiali scuri, lo dichiara orgogliosamente guarito. Eppure Alex continua a ripetere le stesse frasi di quando commetteva del male e finisce per ricadere poi in pezzi alla chiusura del sipario. E’ diventato l’arancia meccanica di cui nessuno si occupa, ma già all'inizio della rappresentazione sembra più vuoto e meno leader del protagonista del film di Kubrick. Acquista così ancora maggior valore la battuta che recita così: “un uomo che sceglie il male è meglio di uno a cui viene imposto il bene”.

Uno spettacolo per lunghi tratti visivo e coreografico, ma che oltre gli occhi (abbaglianti e quasi fastidiose talvolta le luci di Palladino) colpisce lo stomaco. Un susseguirsi di brevi quadri, alcuni confezionati egregiamente come quello della violenza al ralenti in una scatola semovente, che nelle intenzioni del regista rappresenta la mente di Alex. Ma tutto si svolge in un incubo del protagonista, nel suo mondo interiore e percettivo dove l'auto distruzione è il suo inno alla gioia. Storia di inquietante attualità, dove “i detenuti politici riempiono le carceri” e dove Alex è costretto ad assistere a decapitazioni di uomini proprio come noi nella nostra epoca. Le battute che ripete due volte, lui come gli altri personaggi, simbolizzano forse la manipolazione delle coscienze in atto. Il migliore in scena è sicuramente il protagonista, un Daniele Russo dalla voce monocorde e cantilenante. All'altezza gli altri attori, alle prese con ruoli multipli: Alfredo Angelici, Martina Galletta, Giulio Federico Janni e Paola Sambo. Funzionano i costumi di Chiara Aversano, che per i drughi mediano tra l’eleganza dello smoking e l’animalesco primordiale della pelliccia, mentre per gli altri personaggi spaziano tra abiti militari per rappresentare la dittatura vigente e il vestito da grande diva del ministro che si muove come una star del cinema. Per la scelta di non prevedere un intervallo la rappresentazione andrebbe a nostro parere accorciata di 10/15 minuti. Il linguaggio dei drughi, il Nadsat ibrido tra inglese e slavo, nella traduzione di Tommaso Spinelli si fa capire per grandi linee e ad intuito ma quando mancano soluzioni visive e sonore lo spettacolo rallenta anche per questo motivo. Fermo restando le molteplici soluzioni di forte impatto e ingegno che rendono il tutto originale, moderno e avvincente.

Cristiano Esposito
  
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giovedì 13 novembre 2014

Il Mercante secondo Binasco e la bellezza dell'essere uguali al di là del denaro

L'obiettivo che si prefigge la Popular Shakespeare Kompany è quello di mettere in scena grandi testi classici con modalità produttive nuove, spingendo sul pedale del rinnovamento e della creatività. In questi giorni rappresenta al Bellini di Napoli "Il mercante di Venezia" di William Shakespeare, con Silvio Orlando come protagonista e la regia di Valerio Binasco. La trama, nota ai più, è ambientata nella Venezia del XVI secolo e racconta la storia dell'usuraio Shylock che pretende che giustizia sia fatta a spese di Antonio, che si macchia di un mancato pagamento. In una vicenda in cui il bene e il male si mescolano e si spostano continuamente, Binasco si schiera dalla parte di Shylock, che ritiene essere un outsider sconfitto meschinamente. La disputa tra uguali fatui e il diverso di una serietà antica, al di là della fede religiosa, rivela come il vero male sia in realtà il denaro, che genera insensatezza e l'affaticarsi degli uomini nel XVI secolo come oggi. E la commedia, a tratti cupa come un dramma ma con diversi spunti comici, ci dice che in fin dei conti la verità è che non c'è nessuna verità tranne che, come scrive Binasco nelle note di regia, "non c'è nulla di più lieve, al mondo, del nostro essere qui. Insieme. Uguali".

Ne viene fuori un'avvincente opera corale, dove non primeggia un unico protagonista e i vari livelli narrativi si intrecciano mantenendo alta l'attenzione degli spettatori. Di certo risalta la grande bravura di Silvio Orlando, col suo magnetico accento dell'est europeo e la tensione che riesce a creare nel silenzio che intercorre tra una battuta e l'altra. La sua performance ci rende quasi impossibile odiare il personaggio di Shylock, per il quale invece a tratti si prova compassione. Come quando è costretto rapidamente a fare retromarcia, accettando prima i 9 mila scudi, poi chiedendo solo i 3 mila del prestito e infine accettando di baciare il crocifisso (Binasco, tra le varie modifiche al testo originale, fa dire al giudice del tribunale: "E ora bacia la croce, ebreo"). Anche gli altri attori recitano con diverse inflessioni dialettali, dal siciliano al piemontese, passando per l'emiliano, e questo rende la rappresentazione più popolare e attuale. In una compagnia decisamente all'altezza risaltano Sergio Romano, che porta in primo piano la figura di Lancilotto, e la caratterista Milva Marigliano, nei panni di Merissa.
 
L'intento di Binasco di fare dello spettacolo una festa del teatro e del testo una grande favola va a buon fine. Nel domandarci se ci troviamo più di fronte ad una persecuzione della diversità o al compiersi della giustizia tiriamo le somme su quanto Shylock sia davvero l'unico personaggio serio della commedia. Le oltre due ore di buon teatro filano via che è un piacere grazie alla qualità degli attori e della regia. Il resto lo fanno le musiche quasi sussurrate di Arturo Annecchino, i costumi di Sandra Cardini, le luci di Pasquale Mari e le scenografie estremamente essenziali di Carlo De Marino.


Cristiano Esposito

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sabato 8 novembre 2014

Rivieccio grande mattatore all’Augusteo di Napoli con “Stasera ci divertiamo”

Dopo la prima nazionale al teatro Nuovo di Salerno, Gino Rivieccio debutta nella sua Napoli al teatro Augusteo con lo stesso successo e gradimento del pubblico. Quando uno spettacolo funziona, quando un artista conquista l’ammirazione della platea la sensazione si avverte in modo palpabile in sala. Ed è stato proprio così per “Stasera ci divertiamo”, un mix di canzoni, monologhi comici, personaggi e parodie musicali. Il vero ingrediente fondamentale apportato da Rivieccio è il suo talento per la battuta intelligente, oggi sempre più difficile da trovarsi, e il modo di porgerla con immediatezza ed efficacia. Siamo di fronte ad un comico di una volta, giunto ai suoi trentacinque anni di carriera e che ha ancora tanto da dire, che si distingue pur parlando dei soliti argomenti: nuove tecnologie, politica, trash  e ambiguità della vita quotidiana. Parte, musicalmente, da Gaber arrivando a Proietti, si veste da mouse per raccontare l’era degli (a)social network, poi da Antonio Bassolino (presente in platea) in versione boxeur recitando il sempre esilarante monologo dei terroristi in missione a Napoli, gioca a fare uno spassosissimo cruciverba con il pubblico e veste i panni di Pupella Maggio ed Eduardo De Filippo, strabiliando nelle rispettive imitazioni. Tanta roba, insomma.

Accanto a Gino Rivieccio c’è poi l’importante contributo del quartetto di musicisti diretto dal maestro Antonello Cascone e della ballerina Cristina Monticelli. Coautori dello spettacolo con lui sono Gustavo Verde e Gianni Puca, il disegno luci è di Mario Esposito, i costumi di Sandra Bianco, le video scenografie di Alessandro Papa. Il tutto per la regia di Giancarlo Drillo. Spettacolo consigliato per due ore di divertimento non frivolo, soprattutto per i giovani.

Cristiano Esposito
 

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lunedì 3 novembre 2014

Giuliana De Sio e l'alienazione femminile nella metropoli moderna secondo Ruccello al Bellini di Napoli

Giuliana De Sio torna a vestire i panni di Adriana, protagonista di "Notturno di donna con ospiti" di Annibale Ruccello, dopo le edizioni del 1996 e del 2003. Lo fa dopo essersi pienamente ristabilita da alcuni problemi di salute e tornando su un palcoscenico teatrale in grande forma. Scritto nel 1983, il testo è un dramma che non disdegna risvolti comici e thrilling, che esplora la noiosa e ripetitiva quotidianità nella periferia urbana, con annessi il relativo degrado e la relativa solitudine.

Adriana, alla terza gravidanza, vive in una casa a due piani in una periferia desolata insieme ai due figli e al marito metronotte Michele (Mimmo Esposito). Solo la musica e la tv con i suoi messaggi pubblicitari le offrono un po' di svago in un'afosa notte come tante, fino a quando irrompe in casa Rosanna (Rosaria De Cicco), vecchia compagna di scuola che le dice di essere rimasta vittima di un'aggressione. A lei si aggiungerà suo marito Arturo (Andrea De Venuti) e Sandro (Luigi Iacuzio), ex fidanzato di Adriana appena uscito di galera. Questi incontri notturni risveglieranno nella protagonista i fantasmi del passato e provocheranno una reazione folle e atroce nel tentativo di fuggire da quella prigione logorante, dove andare al cimitero a trovare i proprio cari estinti diventa un allettante passatempo e l'unica compagnia sono i ritornelli della tv commerciali imparati ormai a memoria. Ecco spiegato l'entusiasmo iniziale di Adriana per questi strani e inquietanti personaggi, che però avvicinano la sua realtà a quella dei tanto amati film e la risvegliano dal torpore quotidiano proprio quando stava per addormentarsi ennesimamente davanti al piccolo schermo.

La prova della De Sio è convincente, a tratti la recitazione appare lievemente manieristica ma resta salda la capacità di tenere lo spettacolo da gran protagonista sino al finale in cui la regia di Enrico Maria Lamanna aggiunge, rispetto al testo di Ruccello, la reazione agghiacciata di Michele alla vista della moglie imbrattata di sangue. Una moglie fuori dal mondo, che pensa solo ai suoi figli: l'unica preoccupazione reale in ogni momento resta quella che potrebbero svegliarsi, insieme alla tosse di uno dei due, Alfredino. Per il resto è una donna remissiva, subisce tutti a partire da Rosanna, è ingenua, influenzabile. Insieme ai suoi ospiti finalmente ride, si diverte, accetta le avances di Arturo . Insiste affinché restino ancora, perché "ha diritto ogni tanto ad un po' di distrazione".

Straordinariamente brava la De Cicco, brillante anche Gino Curcione nei panni dei genitori di Adriana (un padre remissivo e una madre opprimente). Un testo ricco di emozioni forti, sentimenti contrastanti, tradimenti e promiscuità, violenza tipica delle metropoli moderne, colpi di scena, straziante alienazione, risate anche nel dramma e con un finale catartico. Colpisce e sorprende ancora oggi la bravura di Ruccello nel rilevare i risvolti più cupi dei rapporti interpersonali, le brutture del progresso, la violenza domestica, la frustrazione del quotidiano e la complessità dell'animo femminile. Applausi scroscianti in sala, dove alla prima del Bellini c'è anche la madre dell'autore, la signora Giuseppina De Nonno Ruccello. A prescindere da questo, Annibale è ancora tra noi con la maestria della sua opera.

Cristiano Esposito
    
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sabato 1 novembre 2014

Le voci di Eduardo secondo Toni Servillo al San Ferdinando di Napoli

"Le voci di dentro" è una commedia immortale, come tutte le grandi opere e come il pensiero di un grandissimo come Eduardo De Filippo, in questo caso incentrato sulla disgregazione della famiglia. Scritta nel 1948 ed inserita nella "Cantata dei giorni dispari", è ancora una commedia inquietantemente attuale, che ci parla di noi in quanto napoletani, italiani ed esseri umani. E quando una commedia immortale si incontra con la grande qualità di un attore e regista come Toni Servillo andare a teatro dovrebbe essere irrinunciabile. A dieci anni da "Sabato, domenica e lunedì", l'attore-feticcio cinematografico di Paolo Sorrentino torna a rileggere e a reinterpretare Eduardo con discrezione e sapienza. E lo fa appunto con una commedia dal sapore contemporaneo, popolare, sospesa tra realtà e illusione, che scava nella cattiva coscienza del genere umano. Un sogno confuso con la realtà spinge il protagonista Alberto Saporito a denunciare la famiglia Cimmaruta per un delitto mai commesso. Ciò, nonostante la ritrattazione di Alberto, causa l'implosione delle relazioni familiari, proprio quelle che generalmente si crederebbero le più stabili. E allora ci si accusa a vicenda senza fare autocritica, si mette tranquillamente un assassinio nel bilancio di famiglia, si assiste alla caduta dei valori fondamentali e all'agghiacciante indifferenza di cui tutti siamo al tempo stesso vittime e carnefici. I Cimmaruta sono quindi tutti un po' colpevoli dell'omicidio della "stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacia con noi stessi". La concordia familiare sembra ristabilirsi, in maniera ancor più raccapricciante, solo quando i Cimmaruta si accordano per uccidere Alberto durante una gita in campagna.

Lo spettacolo torna a Napoli a grande richiesta dopo le poche repliche dell'anno scorso sempre al San Ferdinando e dopo una trionfale tournée internazionale. Quasi tutti i personaggi appaiono forti e ben caratterizzati, la regia ordinata e fluida. Straordinarie le performances dei fratelli Servillo: Peppe risponde colpo su colpo alla maestria di Toni, conquistando qualche risata in più grazie alla natura del personaggio, interpretato alla perfezione e che gli permette di sfoggiare una grande mimica. Il suo Carlo Saporito si addormenta sul finale e russa come la cameriera Maria (la brava Chiara Baffi), nel cui sogno sta tutto il significato della commedia, fa nel quadro iniziale.

Altra missione compiuta per Toni Servillo, che rende in modo efficace ed equilibrato la cupezza, la comicità amarissima e il pessimismo eduardiano, perfettamente inseriti nel secondo dopoguerra così come nella nostra epoca. C'è poi il silenzio, tanto silenzio pieno di senso, l'ormai proverbiale silenzio eduardiano. Come quando Toni Servillo/Alberto Saporito si porta sul ciglio della ribalta e dichiara con gli occhi sgranati: "Je me l'aggio sunnato!". Come quando Zi' Nicola torna a parlare invocando un po' di pace e le luci di Cesare Accetta si fanno fredde. Come quando, alla fine della rappresentazione, i due fratelli Saporiti si siedono molto distanti, fissandosi a lungo. In un eloquente e inquietante silenzio. Poi, come detto, Carlo si addormenta e Alberto resta solo, con le sue voci di dentro, con le sue paure, i dubbi, i sogni e le amnesie che hanno dato forma ad una triste realtà.


Cristiano Esposito


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