sabato 28 novembre 2015

Risate in salsa romanesca al Cilea di Napoli, con Pannofino in “I suoceri albanesi”

francesco pannofino i suoceri albanesi teatro napoliUna simpatica commedia sul razzismo al contrario, questa “I suoceri albanesi – ...due borghesi piccoli piccoli” di Gianni Clementi diretta da Claudio Boccaccini, in giro per l’Italia già da oltre un anno. Comincia con il capofamiglia borghese Lucio, consigliere comunale progressista, che prepara un discorso sull’immigrazione da tenere davanti all’assessore Faccini, assonante magari in maniera casuale con Salvini. Sua moglie Ginevra è una chef che segue fino all’ossessione la nouvelle cuisine mentre sua figlia Camilla raramente alza lo sguardo dal display del suo smartphone; e quando lo fa è per inveire contro i genitori. L’esigenza di dover fare dei lavori al bagno di servizio di casa fa imbattere la famigliola in due idraulici albanesi, padre e figlio. Comincia qui la danza del capovolgimento dei luoghi comuni sugli stranieri. O meglio solo di quelli relativi agli albanesi, in quanto l’idraulico padre oltre a rivendicare la sua onestà e il suo essere in piena regola lancia invettive contro zingari e persone di colore. Suo figlio, intanto, intreccerà una storia con Camilla addolcendone i tratti caratteriali e intensificando lo scontro tra culture diverse.

In questa messa in scena, composta da tanti quadri brevi intervallati da un semibuio, sorprendono per bravura i comprimari Andrea Lolli e Maurizio Pepe. Ma al tempo stesso si dimostrano all’altezza Silvia Brogi, Filippo Laganà ed Elisabetta Clementi. La simpatia e la verve romanaccia di Francesco Pannofino, che talvolta adopera parole troppo colorite per strappare la risata, sono poste al centro di tutto coadiuvate dalla valida Emanuela Rossi. I due sono accomunati anche dal fatto di essere esponenti di spicco del doppiaggio.
Una simpatica commedia sul razzismo al contrario, questa “I suoceri albanesi – ...due borghesi piccoli piccoli”di Gianni Clementi diretta da Claudio Boccaccini, in giro per l’Italia già da oltre un anno. Comincia con il capofamiglia borghese Lucio, consigliere comunale progressista, che prepara un discorso sull’immigrazione da tenere davanti all’assessore Faccini, assonante magari in maniera casuale con Salvini. Sua moglie Ginevra è una chef che segue fino all’ossessione la nouvelle cuisine mentre sua figlia Camilla raramente alza lo sguardo dal display del suo smartphone; e quando lo fa è per inveire contro i genitori. L’esigenza di dover fare dei lavori al bagno di servizio di casa fa imbattere la famigliola in due idraulici albanesi, padre e figlio. Comincia qui la danza del capovolgimento dei luoghi comuni sugli stranieri. O meglio solo di quelli relativi agli albanesi, in quanto l’idraulico padre oltre a rivendicare la sua onestà e il suo essere in piena regola lancia invettive contro zingari e persone di colore. Suo figlio, intanto, intreccerà una storia con Camilla addolcendone i tratti caratteriali e intensificando lo scontro tra culture diverse.


francesco pannofino i suoceri albanesi teatro napoli
In questa messa in scena, composta da tanti quadri brevi intervallati da un semibuio, sorprendono per bravura i comprimari Andrea Lolli e Maurizio Pepe. Ma al tempo stesso si dimostrano all’altezza Silvia Brogi, Filippo Laganà ed Elisabetta Clementi. La simpatia e la verve romanaccia di Francesco Pannofino, che talvolta adopera parole troppo colorite per strappare la risata, sono poste al centro di tutto coadiuvate dalla valida Emanuela Rossi. I due sono accomunati anche dal fatto di essere esponenti di spicco del doppiaggio.

L’happy end non aggiunge niente alla narrazione degli ultimi dieci minuti di spettacolo ma il pubblico si diverte, gradisce la storia e le caratterizzazioni e apprezza la bravura degli interpreti. I costumi sono di Antonella Balsamo e Gai Mattiolo per Emanuela Rossi, le luci di Aurelio Rizzuti

 
Cristiano Esposito
 
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giovedì 19 novembre 2015

Latella torna a Fassbinder e al suo teatro allucinato: “Ti regalo la mia morte, Veronika” al Bellini di Napoli

teatro antonio latella fassbinder ti regalo la mia morte veronikaUn ritorno al teatro allucinato, l’ha definito Antonio Latella. E “Ti regalo la mia morte, Veronika” è principalmente una fusione di realtà, allucinazione, ricordi e sogno che ci fa ripercorrere la storia e la morte di Veronika Voss, protagonista del film omonimo del 1982 di Rainer Werner Fassbinder.  Veronika è una diva del cinema di propaganda nazista sul viale del tramonto, che rincorre schizofrenicamente un passato di celebrità e di successo. La sua morte non avverrà dopo una festa, come nel film, ma si presenterà come la scelta precisa di fare un regalo al pubblico, il quale ne godrà e l’applaudirà in maniera ambigua e un po’ perversa come sempre accade. E’ racchiuso in tutto ciò il titolo che Latella dà alla messa in scena, che può essere visto come un saluto firmato dalla protagonista oppure come un pensiero indirizzato dal regista Fassbinder, morto per overdose di cocaina e sonniferi, alla sua eroina.
 
Dopo l’allestimento, datato 2006, di  “Le lacrime amare di Petra Von Kant” (tratto da un film del 1972), il regista stabiese torna ad occuparsi dell’universo fassbinderiano e dei suoi fantasmi, che teatralmente parlando sono incarnati da Čechov (sul quale ironizzano i personaggi in scena), Goldoni, Ibsen e in parte dalla tragedia greca. Latella riformula il melodramma portando il pubblico a rifletterci su senza perdere in aspetti emozionali. La quarta parete viene subito abbattuta in apertura, con le prime battute rivolte agli spettatori in modo irriverente. Che Veronika debba arrivare a morire si sa fin dall’inizio ed è ciò che tutti aspettano (“commuovere è il mio mestiere, io posso piangere tutte le lacrime che volete”), ma in mezzo c’è tutto un percorso da raccontare e far vivere agli spettatori. I quali vengono poi, nel finale, trasportati in un aldilà popolato dalle eroine del cinema fassbinderiano, tutte morte tragicamente. In questo limbo, dominato da un grande albero ai piedi del quale si svolge un picnic, si parla ironicamente del regista tedesco in una sorta di rivincita dei personaggi femminili su chi li ha partoriti.
  
L’adattamento di Antonio Latella e Federico Bellini adotta in un misto di italiano e tedesco un linguaggio didascalico, per cui è come se a tratti il pubblico assistesse alla lettura di una sceneggiatura cinematografica. Tutto ci riporta dentro alle allucinazioni di Veronika, dietro il tema principale dell’infelicità e del mondo dello spettacolo. A partire dai sei gorilla bianchi che ricordano Kubrick e la morfina di cui abusa la protagonista. Fassbinder è presente nella sala cinematografica dell’inizio e incarnato nella macchina da presa che su di un carrello percorre più volte la scena avanti e indietro. Ma che non può più riaccendersi una volta spenta, nemmeno quando Veronika le implora di farlo.
 
In scena, oltre alla protagonista Monica Piseddu, Annibale Pavone, Valentina Acca, Candida Nieri, Caterina Carpio, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa, Massimo Arbarello, Sebastiano Di Bella e Fabio Bellitti. Le scene sono di Giuseppe Stellato, i costumi di Graziella Pepe, le musiche di Franco Visoli e le luci di Simone de Angelis. 

Cristiano Esposito

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martedì 17 novembre 2015

“E’ tutta una farsa”: da Petito a Troisi, Gianfranco Gallo celebra al Cilea la grande tradizione comica napoletana

farsa Petito Massimiliano Gallo Gianfranco Gallo teatro napoli comici
Mix tra tradizione e innovazione, citazioni e rimandi illustri, teatro e cinema, commedia dell’arte, filosofia, canto; e poi un ottimo cast, accompagnato da scenografie e costumi di pregevole fattura. Gianfranco Gallo ha voluto mettere dentro al suo nuovo spettacolo, “È tutta una farsa – ovvero Petito’s play”, davvero tante cose insieme. Una enorme maschera di Pulcinella bianca (cinque metri per tre e mezzo) si apre in due metà a inizio spettacolo, svelando le scene srotolate da un carrozzone da commedia dell’arte e i personaggi che le popoleranno. E parte, sul filo rosso di un’esile trama, quello che lo stesso Gallo intende definire teatro di “Oltradizione”, che viene dall’Oltre ed è diretto ad Oltre, mirando tra l’altro a trasmettere la ricchezza del passato guardando in avanti. Il suo mezzo privilegiato è la comicità, il lazzo, l’improvvisazione che si avverte diverse volte in scena e travolge nella risata anche gli stessi attori. Questa volta la lente di ingrandimento di Gianfranco Gallo si posa sui Petito e sulla farsa, sui battibecchi e sui travestimenti quali meccanismi comici posti in primo piano.
  
L’unione è tra i due filoni del teatro comico napoletano di tradizione, attraverso l’intreccio di “Na campagnata ’e tre disperate” e “Inferno, Purgatorio e Paradiso” di Antonio Petito e i personaggi reali e senza maschera, con un copione scritto che comunque comanda le operazioni, di Eduardo Scarpetta. Gianfranco e suo fratello Massimiliano sanno già dall’inizio dove inventare e dove non tradire il copione (“l’invenzione è il diamante, il testo è la struttura in oro in cui viene incastonato”, scrive Gianfranco Gallo in un curatissimo e raffinato programma di sala), infarcito di omaggi e citazioni che in un’atmosfera in stile ‘800 conducono a braccetto generazioni diverse di illustri comici. Da Petito si arriva a Totò (quello dei travestimenti di “Miseria e nobiltà” e di “Totòtruffa ‘62”), a Massimo Troisi (citato da “La natività” de La smorfia ma anche da “Non ci resta che piangere” e “Pensavo fosse amore invece era un calesse”) e ai baffi dei fratelli De Rege e di Groucho Marx. C’è anche una partita a scopa che forse richiama “L’oro di Napoli” e Vittorio De Sica. Tutta gente, insomma, che faceva ridere di gusto anche improvvisando in coppia, perché conosceva bene e anche al di fuori del lavoro il suo partner, che fosse un suo parente o meno. Ma i fratelli Gallo ci mettono molto di loro: di grande effetto risulta ascoltare battute legate all’attualità (quando vengono citati i matrimoni gay in Spagna, ad esempio) da attori nei panni di antichi commedianti. L’omaggio si estende al repertorio musicale napoletano comico all’inizio del secondo atto, con Gianfranco e Massimiliano che cantano la “Dorge sirinata” di Armando Gil. E alla poesia di Totò “’A cchiu’ bella”, musicata da Giuni Russo e magistralmente interpretata in scena da Bianca Gallo. 

In scena, tutti brillanti nel loro ruolo, Gianluca Di Gennaro, Bianca Gallo, Arduino Speranza, Anna De Nitto, Ursula Muscetta e Francesco Russo. Le scene sono di Clelio Alfinito, i costumi, davvero notevoli e talvolta cambiati in scena dagli interpreti che si camuffano, di Francesca Romano Scudiero, le luci di Cesare Accetta e le musiche di Paco Ruggiero. Uno spettacolo esilarante, incalzante specialmente nel primo atto, che riesce efficacemente a rispolverare e a salvaguardare il teatro comico napoletano con la “c” maiuscola e a donargli nuova vita nel solco di una tradizione d’arte di inestimabile valore.

Cristiano Esposito
 
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giovedì 5 novembre 2015

“La musica provata”: i ricordi di Erri De Luca accompagnati dalle note al Bellini di Napoli

E’ un Erri De Luca in grande forma quello reduce dall’assoluzione nel processo per la presunta istigazione al sabotaggio della TAV. Calca il palco del teatro Bellini di Napoli con la sua solita sicurezza, la sua imperturbabilità, la sua sottile ironia che fa capolino qua e là tra i suoi racconti srotolati con buone doti affabulatorie. In “La musica provata” mette in corto circuito la musica e la sua vita, attraverso le canzoni scritte da lui, arrangiate da  Stefano Di Battista e cantate da Nicky Nicolai. Canzoni che servono a Erri De Luca per affilare i ricordi, che nascono da versi che contengono già in sé stessi una musicalità che, dice, suggerisce con grande facilità la melodia da applicarvi. Un esempio lampante viene da “Abbracciati”, componimento del poeta bosniaco Izet Sarajlić.

La musica aiuta a piantare determinate parole nella mente delle persone, come avviene per certe futili canzonette, e aiuta anche a renderle “lecite” senza far indignare nessuno. Come afferma De Luca, magari canticchiate su una musichetta le sue parole sulla TAV non avrebbero sollevato alcun polverone. E le note accompagnano tutti gli argomenti di questa intima conversazione musicale dello scrittore col pubblico. De Luca riprende alcune riflessioni dal suo libro “In nome della madre”, con l’analisi delle figure di Maria, Giuseppe e Gesù.  Parla poi del suo rapporto col canto, propone una sua rivisitazione (nel ritornello) della classicissima “I' te vurria vasà”, ricorda la Napoli della sua infanzia che ha formato i suoi primi sentimenti, San Gennaro, il rapporto col Vesuvio, la canzone napoletana “ammaccata” dalle
donne. Recita Salvatore Di Giacomo, racconta il suo essere cittadino del Mediterraneo attraverso le tragedie di Lampedusa e infine imbraccia la sua chitarra napoletana, datata 1964. Con sua figlia Aurora canta la sua “Ballata per una prigioniera”, prima di congedarsi dal pubblico con “Arrivederci fratello mare”, in cui i versi del poeta turco Nazim Hikmet vengono musicati dolcemente e ribaditi da alcune piacevoli incursioni in voce del cantautore Claudio Baglioni. La band è formata da Roberto Pistolesi alla batteria, Daniele Sorrentino al basso e Andrea Rea al pianoforte.

Come sempre avviene con uno spettacolo di Erri De Luca a teatro, la sensazione che resta è quella di aver assistito ad un evento speciale, in un’atmosfera non comune, e di tornarsene a casa ammirati e arricchiti almeno un po’ nella mente e nello spirito.

Cristiano Esposito

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