Eduardo De Filippo era solito scrivere quasi sempre due
commedie alla volta, dedicandosi alternatamente un giorno all’una, uno
all’altra. Se una di queste non otteneva il successo sperato, rappresentava
immediatamente la seconda. “La grande magia”, testo eduardiano coraggioso, mise
d’accordo negativamente pubblico e critica nella prima edizione del 1949. Fu
sostituita ben presto da “Le voci di dentro” e ripresa dal maestro solo per la
registrazione televisiva nel 1964. Nel 1985 sarà poi Giorgio Streheler a curare
la regia di una versione della commedia che girò trionfalmente l’Europa a pochi
mesi dalla morte di Eduardo. Sotto la sua direzione il testo tutto italiano di
Eduardo fu tradotto in tanti dialetti locali, uno per ogni personaggio, per
uscire da una visione esclusivamente napoletana.
Per Strehler è una commedia spaventosamente negativa e amara;
per Luca De Filippo è tutta incentrata sull’introspezione, sulla disillusione
di assistere in Italia ad un reale cambiamento. Fatto sta che come “Napoli
milionaria” anticipò temi e stili di un certo tipo di cinema, così Eduardo si
distacca con essa dal realismo due anni prima di Miracolo a Milano.
“La grande magia” è la storia di un marito, Calogero Di Spelta,
la cui moglie fugge con l’amante approfittando dei giochi di un illusionista
fallito, che a tratti ricorda il Sik Sik degli esordi eduardiani. Il
protagonista rinuncerà ad una verità migliore dell’illusione di avere la moglie
con sé chiusa in una scatola, facendo un uso forse strumentale della fantasia
soggettiva a spese della realtà oggettiva una volta scoperto il tradimento di
lei. Aggrapparsi all’illusione, al sogno a volte può essere l’unica ancora di
salvezza. “La vita è un gioco – diceva Eduardo – e questo gioco ha bisogno di
essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata
dalle fede”.
I toni irrealistici e fantastici sono alimentati in questa
versione da personaggi calcati macchiettisticamente, in una messa in scena
essenziale ma di grande suggestione, grazie alle scene e ai costumi di Raimonda
Gaetani e alle luci di Stefano Stacchini. Il ritmo non è sempre sostenuto ma,
si sa, Luca De Filippo fa suo anche quel teatro dell’illustre genitore fatto di
pause, riflessioni pirandelliane e silenzi toccanti. Accanto a lui Paola
Fuciniti, Alessandra D’Ambrosio, Carmen Annibale, Lydia Giordano, Massimo De
Matteo, Antonio D’Avino, Daniele Marino, Gianni Cannavacciuolo, Nicola Di
Pinto, Giulia Pica, Carolina Rosi e Giovanni Allocca.
Il tutto per una commedia annoverabile tra le minori di
Eduardo, di cui però oggi appare forse ancor più chiara la genialità e l’originalità.
Grande metafora su realtà e illusione, sul potere della finzione scenica, sulla
relatività del tempo, in cui l’immagine dell’uomo è più vera dell’uomo stesso.
Siamo tutti esperimenti, giochi di un grande illusionista, e il pubblico è come
un mare che lascia l’attore solo, isolato. Perché, come scriveva Calderón de la Barca, “Tutti nella vita
sognano di essere quello che sono. Solo che nessuno se ne rende conto”.
Cristiano Esposito
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