In “Sik Sik, l’artefice magico”,
atto unico scritto da un giovane Eduardo De Filippo nel 1929, ci sono tutti i
semi di ciò che caratterizzerà l’opera a venire del grande drammaturgo. C’è la
fame, la miseria, il riso amaro, i rapporti umani, l’arrabbattarsi per la
dignità in ogni modo, la malinconia: in una parola, la vita. La vita osservata
avidamente, studiata e poi riprodotta sul palco con lo stile inconfondibile
dell’arte eduardiana. L’opera racconta la storia di un illusionista sgangherato,
appunto Sik Sik, che si esibisce con la moglie incinta in teatri di quart’ordine.
Chi gli fa abitualmente da assistente per lo spettacolo fingendosi un
volontario del pubblico tarda a venire e Sik Sik è costretto a sostituirlo col
primo passante che incontra. I tre numeri “magici” falliranno miseramente causando
imbarazzo e ambasce nel mago e in sua moglie.
La regia di Pierpaolo Sepe
rilegge con discrezione il capostipite dei personaggi eduardiani, adattandolo
ai giorni nostri, dove pure miseria e incomunicabilità persistono tragicamente.
Utilizza per questa messa in scena la registrazione della versione che Eduardo
portò in scena al San Ferdinando di Napoli nel 1979, conservata da Giulio Baffi,
piena di improvvisazioni e lazzi non presenti in quella originale. E proprio dalla
voce del maestro si comincia, unica cosa che resta della registrazione Rai facente
parte del ciclo di commedie del 1962. Nella penombra del teatro Nuovo è forte
la suggestione nell’ascoltare la genesi di Sik Sik, scritto in treno per una
rivista da rappresentare proprio su quel palco. Ed è ancora più emozionante
sentire Eduardo confessare con candore come Sik Sik fosse il personaggio più
amato da lui e che lo accompagnò per quattrocentocinquanta repliche sempre con
lo stesso, grande successo. Si alza poi il sipario, le luci che illuminano gli
attori sono fredde come la fame che li attanaglia, più calde appaiono soltanto
quelle che bagnano direttamente il retropalco prima, e la scena poi del palco nel
palco su cui si esibirà Sik Sik. Il suo linguaggio che storpia le desinenze è eternamente
comico ed evidenzia la grande inventiva di Eduardo a riguardo, che qui arriva a
tratti a lambire il surreale. Sepe, che immerge i personaggi nel dramma e nell’amarezza
fin sopra la testa, spinge anche sul pedale delle schermaglie fisiche accentuate
per suscitare risate. Benedetto Casillo rende con efficacia l’inadeguatezza di
Sik Sik, insieme con la menzogna dei suoi espedienti che falliscono e lo riconducono
ancor di più nel baratro di una vita misera e nomade. I giochi di prestigio dovrebbero riscattare
un’esistenza senza dignità, senza onore né gloria: ciò non accade e il piatto
della bilancia dell’amarezza finisce per prevalere su quello della comicità. Ma
in fin dei conti la dignità cercata da Sik Sik è quella esteriore, tutta forma
e niente sostanza, quella che ancora regna nella Napoli attuale del “pare
brutto”.
Uno spettacolo volutamente
scarno, astratto, simbolico, dove non vediamo né i catenacci, né i colombi, né i
bicchieri, né la cassa in cui viene chiusa la moglie dell’illusionista. Vediamo
però il pollastro che umilia per l’ultima volta Sik Sik, che con la moglie ride
e piange amaramente salutando con una serie di inchini il pubblico, mentre la
scatola del palco ingoia entrambi richiudendosi. All’altezza del protagonista
il cast costituito da Aida Talliente, attrice friulana che qui bagna il suo
napoletano in un accento che sembra dell’est Europa, Marco Manchisi, che
ricorda a tratti l’interpretazione di Luca De Filippo, e Roberto Del Gaudio, che
si prodiga nell’interpretare un guappo classico dall’aspetto ben curato. Le
scene, essenziali. sono di Francesco Ghisu, le luci Cesare Accetta, i costumi
di Annapaola Brancia D’Apricena.
Cristiano Esposito
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