Dopo il successo del 2012 il
regista e drammaturgo argentino Claudio Tolcachir torna a Napoli, dove il
Teatro Festival ha scelto di coprodurre Dinamo, la sua ultima creazione.
Scritto e diretto nell’arco di un anno in collaborazione con Melisa Hermida e Lautaro
Perotti, lo spettacolo è un viaggio nel mondo di tre donne diverse e sole,
sospese tra lucidità e follia. Il titolo, che inizialmente doveva
concretizzarsi anche sulla scena con un oggetto reale, indica la forza manuale, la lavorazione quasi artigianale, che genera
la magia che gli autori volevano legasse
i tre personaggi. La roulotte immersa nel nulla ricostruita da Gonzalo Cordoba
Estévez è la casa di Ada (Marta Lubos), un’ex cantante che si ritrova a dover
ospitare sua nipote Marisa (Daniela Pal), ex tennista che non sa se i suoi
genitori sono morti per un incidente o per un suicidio seguito ad una sua
sconfitta ad un torneo giovanile. Ada spesso afferra il microfono alla ricerca
dell’ispirazione e delle note che la riportino forse ai fasti di un tempo,
mentre si chiede dove sia finita la sua voce. Marisa dovrebbe allenarsi per
riprendere a giocare a tennis, ma riesce soltanto a farsi male. E c’è un terzo
personaggio, Harima (Paula Ransenberg), giunta da un paese lontano che a
giudicare dalla lingua (inventata) sembrerebbe dell’est. Harima vive negli
angoli nascosti della roulotte, appare e scompare quasi come un “munaciello”,
fin quando non viene vista dalle altre due.
Tre personaggi strani che condividono tra loro unicamente uno stesso luogo fisico, che non riescono a comunicare, immersi soltanto nelle proprie preoccupazioni e nei propri interessi volti a rimettere insieme i pezzi di un’esistenza lacerata. Emblematici sono a questo proposito i quadri in cui le tre attrici sono tutte in scena contemporaneamente in luoghi diversi della pur piccola roulotte, separate, divise, sole. Alla fine Harima risulterà la meno strana delle tre e riuscirà ad aiutare in qualche modo le due coinquiline, ad accorciare le distanze, a scavalcare qualche muro. Ada utilizzerà i suoni della sua lingua per comporre canzoni, mentre una Marisa immobilizzata dagli infortuni domestici riuscirà a mangiare soltanto attraverso il suo aiuto.
Joaquin Segade tira fuori qualsiasi suono o effetto possibile dalla sua chitarra elettrica per accompagnare le bizzarie della trama e dei personaggi. Il maggior pregio della messa in scena, a parte una certa originalità dell’idea di partenza, è la leggerezza con cui tocca argomenti drammatici. C’è tanta comicità tragica, come quando Marisa, che sostiene di aver visto in passato “i morti”, prima crede che Harima sia una creazione della sua mente e poi è convinta di trovarsi davanti ad una defunta. Inevitabile a quel punto chiederle se può vedere i suoi genitori e come questi sono morti realmente. Tolcachir supera con sufficienza piena questa nuova sfida, in uno spettacolo non facile ma di cui riesce a tenere il ritmo quasi sempre alto nonostante una lingua inventata e i tanti silenzi, tra spazi ridotti e un assurdo che strizza l’occhio a Beckett.
Tre personaggi strani che condividono tra loro unicamente uno stesso luogo fisico, che non riescono a comunicare, immersi soltanto nelle proprie preoccupazioni e nei propri interessi volti a rimettere insieme i pezzi di un’esistenza lacerata. Emblematici sono a questo proposito i quadri in cui le tre attrici sono tutte in scena contemporaneamente in luoghi diversi della pur piccola roulotte, separate, divise, sole. Alla fine Harima risulterà la meno strana delle tre e riuscirà ad aiutare in qualche modo le due coinquiline, ad accorciare le distanze, a scavalcare qualche muro. Ada utilizzerà i suoni della sua lingua per comporre canzoni, mentre una Marisa immobilizzata dagli infortuni domestici riuscirà a mangiare soltanto attraverso il suo aiuto.
Joaquin Segade tira fuori qualsiasi suono o effetto possibile dalla sua chitarra elettrica per accompagnare le bizzarie della trama e dei personaggi. Il maggior pregio della messa in scena, a parte una certa originalità dell’idea di partenza, è la leggerezza con cui tocca argomenti drammatici. C’è tanta comicità tragica, come quando Marisa, che sostiene di aver visto in passato “i morti”, prima crede che Harima sia una creazione della sua mente e poi è convinta di trovarsi davanti ad una defunta. Inevitabile a quel punto chiederle se può vedere i suoi genitori e come questi sono morti realmente. Tolcachir supera con sufficienza piena questa nuova sfida, in uno spettacolo non facile ma di cui riesce a tenere il ritmo quasi sempre alto nonostante una lingua inventata e i tanti silenzi, tra spazi ridotti e un assurdo che strizza l’occhio a Beckett.
Cristiano Esposito
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