Sarà stata l'atmosfera della domenica pomeriggio, l'orario
della rappresentazione fissato alle 17:30 che sa di famiglia ancora riunita
attorno alla tavola del pranzo o assopita sui divani. Fatto sta che questo
incontro-spettacolo con Giuseppe Ayala è sembrata una cordiale chiacchierata
tra amici che si rituffano in un passato con qualche residuo nodo non ancora
venuto al pettine. "Peppino", come lo chiamavano Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, è lì impettito, orgoglioso e ancora infervorato quando parla
del lavoro suo dei suoi colleghi al servizio dello Stato, nella lotta alla
mafia. E cerca di spiegarci i motivi per i quali questa guerra non è ancora
vinta utilizzando una metafora sportiva: siamo purtroppo di fronte ad una
partita truccata fra due squadre i cui giocatori si scambiano le maglie
continuamente, pur se la squadra Stato dovrebbe essere nettamente superiore e
in grado di vincere il match. Una partita che dura ormai, ingiustificatamente,
da 150 anni.
Il giudice Ayala ripercorre approfonditamente la storia del suo
rapporto con Falcone e Borsellino, di quegli anni di sincera amicizia e lavoro
alacre che fruttò tante soddisfazioni ma anche qualche delusione, nel momento
in cui lo stato interruppe il suo concreto appoggio e talvolta gli remò
addirittura contro. Tra le grandi soddisfazioni c'è naturalmente il racconto
del maxi-processo a Palermo, in cui Ayala fu pubblico ministero. Due anni di
lavori, un'ora e venti minuti per leggere la sentenza, 2.665 anni di condanne al carcere divisi fra i 360
colpevoli, 19 ergastoli per i boss: sicuramente la pagina più bella e vittoriosa
scritta dalla giustizia italiana. Ma questa è una storia che qualcuno ha chiuso
troppo presto, liquidandola magari con un semplice "Falcone e Borsellino
contrastavano la mafia e per questo sono stati ammazzati". Le indagini
sono ancora aperte, certi interrogativi restano ancora irrisolti. E poi c'è da
tramandare la grande, straordinaria eredità civile e materiale che i due grandi
giudici, ma prima di tutto grandi uomini, ci hanno lasciato.
Una scena essenziale, dominata da una grande magnolia che è
simbolo palermitano della lotta alla mafia e che campeggia ancora oggi davanti
casa Falcone, adornata dai tanti messaggi che lasciati dai passanti per
l'indimenticato e indimenticabile Giovanni. E poi sedie e sgabelli, a gruppi di tre, messi
lì come per far accomodare accanto a Peppino i suoi amici Giovanni e Paolo, che
lo accompagnano in questo suggestivo viaggio. Fanno il loro le toccanti musiche
originali di Roberto Colavalle e Matteo Cremolini, l'ausilio del racconto in
scena di Francesca Ceci e la proiezione di filmati storici che ci conducono
ancor più addentro le vicende di quegli anni. Giuseppe Ayala ha un carisma
speciale, un modo di raccontare semplice ed efficace, che scava a fondo nelle
coscienze. Ciò giustifica pienamente anche la strada politica che ha intrapreso
per un certo numero di anni a partire dal 1992. In questo "Chi ha paura
muore ogni giorno - I miei anni con Falcone e Borsellino", tratto dal suo
libro omonimo, mette un bel pezzo della sua vita e della sua storia su un palco
per mantenere vivo il ricordo e dare voce alla verità. “Il nostro lavoro non si arrestò
per la reazione di Cosa Nostra; noi fummo fermati da pezzi delle istituzioni
dello Stato! E’ venuto il momento di chiarirlo”. Chiarire e ricordare,
raccontare e tramandare: in questo spesso l'Italia non brilla di certo.
La prima statua dedicata a Giovanni Falcone è stata posta in una scuola
dell'FBI in America, in un punto davanti al quale gli allievi dovevano passare
necessariamente almeno due volte ogni giorno. In America.
Cristiano Esposito
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