venerdì 5 dicembre 2014

Risate di tradizione al Cilea di Napoli con Luigi De Filippo

Anche quest’anno Luigi De Filippo torna al Cilea di Napoli e lo fa con una commedia di suo padre Peppino, intitolata “La lettera di mammà”. Messa in scena per la prima volta il 4 gennaio 1933 al teatro Sannazaro di Napoli dai fratelli De Filippo, è una farsa comica popolare che unisce i temi della fame e della nobiltà di matrice scarpettiana ad alcune notazioni di costume di Peppino riguardo le ipocrisie e le ambiguità della borghesia, tanto cara al fascismo. Anche attraverso questa rappresentazione il pubblico napoletano scoprì nei giovani fratelli De Filippo quel talento e quella comicità pervasa di amarezza che, col tempo, li avrebbe resi celebri e ammirati in Italia e all’estero. Al centro della storia troviamo Edoardo Mesti di Castelfusillo, un barone impoverito che combina il matrimonio di suo nipote Riccardo con Claretta, figlia di Gaetano, ricco commerciante, e di Luisa, più interessata al titolo nobiliare da acquisire che al benessere economico raggiunto. Nel contempo il barone mira a sposare la ricca zitella Teresa, sorella di Luisa, unicamente per salvarsi dalla miseria. Riccardo però, educato e ingenuo, intende rispettare le ultime volontà della madre defunta, contenute in una lettera che sembra negare che il matrimonio venga consumato e auspicare il platonico rispetto della donna. Il matrimonio tra il barone Edoardo e Teresa, però, potrà avvenire soltanto in seguito al battesimo del primo bebè della coppia di giovani sposi. Risolverà tutto Edoardo con una trovata geniale…

Si ride meno rispetto agli ultimi spettacoli di Luigi De Filippo, nonostante l’immortalità del meccanismo comico delle storpiature linguistiche da “pezzenti saliti”. Alcune battute, a riguardo, sono chiaramente prese a prestito da “Miseria e nobiltà” di Scarpetta, specialmente quando Luisa intende impartire lezioni di signorilità alla cameriera. Siamo di fronte ad uno spettacolo per gli amanti delle commedie popolari di una volta, di cui ci arriva intatta la genuinità e il divertimento pulito tra adulteri, ingenuità giovanili, doti e titoli nobiliari, apparenze e realtà. Si conferma la centralità delle problematiche matrimoniali, discusse da De Filippo a tu per tu con il pubblico all’apertura del sipario sul secondo atto. Accanto alla sua maestria comica e alla sua naturalezza nella recitazione va messa in rilievo la bravura di Fabiana Russo (Giuseppina, la cameriera) e di Vincenzo De Luca (Riccardo, il baroncino goffo e impacciato), autentica macchietta. In scena con loro, in piena sintonia col registro classico della rappresentazione, Claudia Balsamo (Claretta), Stefania Aluzzi (Luisa), Riccardo Feola (Ernesto), Francesca Cardiello (signora Carnale), Marilia Testa (Dorina), Stefania Ventura (Teresa), Michele Sibilio (Gaetano), Giorgio Pinto (Cavalier De Rosa). Deliziosi i costumi. Applausi e risate dalla platea, mai abbastanza gremita quando un De Filippo torna a Napoli tra un sold out e l’altro in giro per l’Italia.

Cristiano Esposito


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Il dialogo uomo-donna contro il male di vivere: “La scena” di Cristina Comencini al Diana di Napoli

E’ un condensato notevole di sentimenti e stati d’animo questo “La scena”, commedia scritta e diretta da Cristina Comencini. Amore, rabbia, paura, dolore, amicizia, fragilità e forza declinate sia al femminile che al maschile. Le protagoniste sono due amiche di sempre, opposte e complementari, orgogliose di sé eppure desiderose di pensare e comportarsi come l’altra, ogni tanto. Lucia (Angela Finocchiaro), attrice professionista, una domenica mattina prova una scena nei panni di una donna sconvolta dalla vita in casa di Maria (Maria Amelia Monti). Entrambe separate, la prima seria, razionale, con un passato sentimentale che l’ha resa guardinga nei confronti del mondo maschile e la seconda con due figli, donna “leggera” e spensierata, passionale e incline a rapide avventure di una notte che ritiene possano procurarle “l’uomo giusto”. Come quella che ha appena trascorso con un giovane di ventisei anni, interpretato dal promettente attore comasco Stefano Annoni. Quando questi salta fuori in mutande davanti a Lucia, che sta riprovando la scena con i toni maggiormente sensuali proposti da Maria, è convinto di aver passato la notte con lei. Scatta così il divertente e classico meccanismo degli equivoci, in cui le due amiche dimostrano di conoscersi così bene da poter recitare egregiamente a memoria i rispettivi ruoli. Ma qui esce fuori la cruda visione che ognuna ha dell’altra, probabilmente mai raccontata. Poi il gioco finisce e le due rivelano le loro vere identità, così come il ragazzo, segnato da una madre imperiosa causa della sua rabbia quando viene relegato al ruolo di ragazzino-figlio in mutande.
 
Le stesse righe scritte su un copione raccontano per Lucia, che ha rinunciato agli uomini con sfiducia e si accontenta di amare i personaggi che incontra sul palcoscenico, fragilità e tempeste dell’anima mentre per Maria rappresentano erotici terremoti interni ed occasioni di vita. Ciò è dovuto al passato incancellabile che condiziona il presente e porta a scegliersi un modo per difendersi dalla vita. Quel passato che “sono solo muri sventrati, case terremotate da cui si deve fuggire”. La Comencini spariglia le carte scrivendo di un ragazzino che corre dietro a due donne in età e proponendo un’analisi dei rapporti tra uomo e donna, tra genitori e figli, auspicando una convergenza, un incontro e un dialogo utile ad educarsi a vicenda, ad uscire dalla solitudine e a riconoscere le proprie ferite, i propri vuoti da riempire. Ma c’è abbastanza spazio anche per le risate napoletane, in questa commedia dagli accenti del nord che scorre con buon ritmo e garbata ironia. Con un interrogativo finale: è nella vita che siamo liberi di essere chi vogliamo oppure è il palcoscenico l’unico luogo veramente libero di questo mondo?

Cristiano Esposito
  
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venerdì 21 novembre 2014

L'ultraviolenza e la massificazione del pensiero: l'"Arancia meccanica" di Gabriele Russo

Ritorna in scena al Bellini di Napoli l’"Arancia meccanica" diretta da Gabriele Russo, spettacolo tratto dal testo teatrale che Burgess scrisse a partire dal suo romanzo nel 1990 per la Royal Shakespeare Company. Umanamente inevitabile correre col pensiero prima, durante e dopo lo spettacolo, al film di Kubrick di cui Russo richiama soprattutto la violenza estetizzante, grazie anche al contributo delle musiche deformanti di Morgan, delle scene espressioniste di Roberto Crea e delle luci stroboscopiche e al neon di Salvatore Palladino. Il fascino della trama di questo capolavoro della letteratura distopica ha passato indenne il mezzo secolo abbondante di vita, cosicché il pubblico rivive sempre con interesse la storia dell'ultraviolenza perpetrata da Alex (Daniele Russo) e dai suoi drughi (Sebastiano Gavasso e Alessio Piazza) che, drogati di lattepiù, si muovono barcollando, seguita dalla cattura e dalla riabilitazione del primo con esiti sconcertanti. Burgess fu straordinario profeta capace di guardare ben oltre il suo tempo, anticipando ampiamente il controllo delle coscienze e la massificazione del pensiero. Oggi Gabriele Russo interroga il suo pubblico sulla libertà di scelta: “è meglio essere malvagi per propria scelta o essere retti ed onesti grazie ad un lavaggio scientifico del cervello?”. Alla fine dello spettacolo sembra forse aver sofferto più Alex che le sue vittime, in nome di una scienza al comando che renda disgustosa la violenza e salvi così il mondo. Ma dopo la cura Ludovico il protagonista non sa più difendersi né reagire ai soprusi, non ha più libertà di scelta né di amare, arriva a provare addirittura fastidio nell’ascolto del suo amato Beethoven. Viene issato in alto come un uomo sulla croce ai cui piedi il ministro degli interni (Paola Sambo), dietro un paio di occhiali scuri, lo dichiara orgogliosamente guarito. Eppure Alex continua a ripetere le stesse frasi di quando commetteva del male e finisce per ricadere poi in pezzi alla chiusura del sipario. E’ diventato l’arancia meccanica di cui nessuno si occupa, ma già all'inizio della rappresentazione sembra più vuoto e meno leader del protagonista del film di Kubrick. Acquista così ancora maggior valore la battuta che recita così: “un uomo che sceglie il male è meglio di uno a cui viene imposto il bene”.

Uno spettacolo per lunghi tratti visivo e coreografico, ma che oltre gli occhi (abbaglianti e quasi fastidiose talvolta le luci di Palladino) colpisce lo stomaco. Un susseguirsi di brevi quadri, alcuni confezionati egregiamente come quello della violenza al ralenti in una scatola semovente, che nelle intenzioni del regista rappresenta la mente di Alex. Ma tutto si svolge in un incubo del protagonista, nel suo mondo interiore e percettivo dove l'auto distruzione è il suo inno alla gioia. Storia di inquietante attualità, dove “i detenuti politici riempiono le carceri” e dove Alex è costretto ad assistere a decapitazioni di uomini proprio come noi nella nostra epoca. Le battute che ripete due volte, lui come gli altri personaggi, simbolizzano forse la manipolazione delle coscienze in atto. Il migliore in scena è sicuramente il protagonista, un Daniele Russo dalla voce monocorde e cantilenante. All'altezza gli altri attori, alle prese con ruoli multipli: Alfredo Angelici, Martina Galletta, Giulio Federico Janni e Paola Sambo. Funzionano i costumi di Chiara Aversano, che per i drughi mediano tra l’eleganza dello smoking e l’animalesco primordiale della pelliccia, mentre per gli altri personaggi spaziano tra abiti militari per rappresentare la dittatura vigente e il vestito da grande diva del ministro che si muove come una star del cinema. Per la scelta di non prevedere un intervallo la rappresentazione andrebbe a nostro parere accorciata di 10/15 minuti. Il linguaggio dei drughi, il Nadsat ibrido tra inglese e slavo, nella traduzione di Tommaso Spinelli si fa capire per grandi linee e ad intuito ma quando mancano soluzioni visive e sonore lo spettacolo rallenta anche per questo motivo. Fermo restando le molteplici soluzioni di forte impatto e ingegno che rendono il tutto originale, moderno e avvincente.

Cristiano Esposito
  
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giovedì 13 novembre 2014

Il Mercante secondo Binasco e la bellezza dell'essere uguali al di là del denaro

L'obiettivo che si prefigge la Popular Shakespeare Kompany è quello di mettere in scena grandi testi classici con modalità produttive nuove, spingendo sul pedale del rinnovamento e della creatività. In questi giorni rappresenta al Bellini di Napoli "Il mercante di Venezia" di William Shakespeare, con Silvio Orlando come protagonista e la regia di Valerio Binasco. La trama, nota ai più, è ambientata nella Venezia del XVI secolo e racconta la storia dell'usuraio Shylock che pretende che giustizia sia fatta a spese di Antonio, che si macchia di un mancato pagamento. In una vicenda in cui il bene e il male si mescolano e si spostano continuamente, Binasco si schiera dalla parte di Shylock, che ritiene essere un outsider sconfitto meschinamente. La disputa tra uguali fatui e il diverso di una serietà antica, al di là della fede religiosa, rivela come il vero male sia in realtà il denaro, che genera insensatezza e l'affaticarsi degli uomini nel XVI secolo come oggi. E la commedia, a tratti cupa come un dramma ma con diversi spunti comici, ci dice che in fin dei conti la verità è che non c'è nessuna verità tranne che, come scrive Binasco nelle note di regia, "non c'è nulla di più lieve, al mondo, del nostro essere qui. Insieme. Uguali".

Ne viene fuori un'avvincente opera corale, dove non primeggia un unico protagonista e i vari livelli narrativi si intrecciano mantenendo alta l'attenzione degli spettatori. Di certo risalta la grande bravura di Silvio Orlando, col suo magnetico accento dell'est europeo e la tensione che riesce a creare nel silenzio che intercorre tra una battuta e l'altra. La sua performance ci rende quasi impossibile odiare il personaggio di Shylock, per il quale invece a tratti si prova compassione. Come quando è costretto rapidamente a fare retromarcia, accettando prima i 9 mila scudi, poi chiedendo solo i 3 mila del prestito e infine accettando di baciare il crocifisso (Binasco, tra le varie modifiche al testo originale, fa dire al giudice del tribunale: "E ora bacia la croce, ebreo"). Anche gli altri attori recitano con diverse inflessioni dialettali, dal siciliano al piemontese, passando per l'emiliano, e questo rende la rappresentazione più popolare e attuale. In una compagnia decisamente all'altezza risaltano Sergio Romano, che porta in primo piano la figura di Lancilotto, e la caratterista Milva Marigliano, nei panni di Merissa.
 
L'intento di Binasco di fare dello spettacolo una festa del teatro e del testo una grande favola va a buon fine. Nel domandarci se ci troviamo più di fronte ad una persecuzione della diversità o al compiersi della giustizia tiriamo le somme su quanto Shylock sia davvero l'unico personaggio serio della commedia. Le oltre due ore di buon teatro filano via che è un piacere grazie alla qualità degli attori e della regia. Il resto lo fanno le musiche quasi sussurrate di Arturo Annecchino, i costumi di Sandra Cardini, le luci di Pasquale Mari e le scenografie estremamente essenziali di Carlo De Marino.


Cristiano Esposito

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sabato 8 novembre 2014

Rivieccio grande mattatore all’Augusteo di Napoli con “Stasera ci divertiamo”

Dopo la prima nazionale al teatro Nuovo di Salerno, Gino Rivieccio debutta nella sua Napoli al teatro Augusteo con lo stesso successo e gradimento del pubblico. Quando uno spettacolo funziona, quando un artista conquista l’ammirazione della platea la sensazione si avverte in modo palpabile in sala. Ed è stato proprio così per “Stasera ci divertiamo”, un mix di canzoni, monologhi comici, personaggi e parodie musicali. Il vero ingrediente fondamentale apportato da Rivieccio è il suo talento per la battuta intelligente, oggi sempre più difficile da trovarsi, e il modo di porgerla con immediatezza ed efficacia. Siamo di fronte ad un comico di una volta, giunto ai suoi trentacinque anni di carriera e che ha ancora tanto da dire, che si distingue pur parlando dei soliti argomenti: nuove tecnologie, politica, trash  e ambiguità della vita quotidiana. Parte, musicalmente, da Gaber arrivando a Proietti, si veste da mouse per raccontare l’era degli (a)social network, poi da Antonio Bassolino (presente in platea) in versione boxeur recitando il sempre esilarante monologo dei terroristi in missione a Napoli, gioca a fare uno spassosissimo cruciverba con il pubblico e veste i panni di Pupella Maggio ed Eduardo De Filippo, strabiliando nelle rispettive imitazioni. Tanta roba, insomma.

Accanto a Gino Rivieccio c’è poi l’importante contributo del quartetto di musicisti diretto dal maestro Antonello Cascone e della ballerina Cristina Monticelli. Coautori dello spettacolo con lui sono Gustavo Verde e Gianni Puca, il disegno luci è di Mario Esposito, i costumi di Sandra Bianco, le video scenografie di Alessandro Papa. Il tutto per la regia di Giancarlo Drillo. Spettacolo consigliato per due ore di divertimento non frivolo, soprattutto per i giovani.

Cristiano Esposito
 

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lunedì 3 novembre 2014

Giuliana De Sio e l'alienazione femminile nella metropoli moderna secondo Ruccello al Bellini di Napoli

Giuliana De Sio torna a vestire i panni di Adriana, protagonista di "Notturno di donna con ospiti" di Annibale Ruccello, dopo le edizioni del 1996 e del 2003. Lo fa dopo essersi pienamente ristabilita da alcuni problemi di salute e tornando su un palcoscenico teatrale in grande forma. Scritto nel 1983, il testo è un dramma che non disdegna risvolti comici e thrilling, che esplora la noiosa e ripetitiva quotidianità nella periferia urbana, con annessi il relativo degrado e la relativa solitudine.

Adriana, alla terza gravidanza, vive in una casa a due piani in una periferia desolata insieme ai due figli e al marito metronotte Michele (Mimmo Esposito). Solo la musica e la tv con i suoi messaggi pubblicitari le offrono un po' di svago in un'afosa notte come tante, fino a quando irrompe in casa Rosanna (Rosaria De Cicco), vecchia compagna di scuola che le dice di essere rimasta vittima di un'aggressione. A lei si aggiungerà suo marito Arturo (Andrea De Venuti) e Sandro (Luigi Iacuzio), ex fidanzato di Adriana appena uscito di galera. Questi incontri notturni risveglieranno nella protagonista i fantasmi del passato e provocheranno una reazione folle e atroce nel tentativo di fuggire da quella prigione logorante, dove andare al cimitero a trovare i proprio cari estinti diventa un allettante passatempo e l'unica compagnia sono i ritornelli della tv commerciali imparati ormai a memoria. Ecco spiegato l'entusiasmo iniziale di Adriana per questi strani e inquietanti personaggi, che però avvicinano la sua realtà a quella dei tanto amati film e la risvegliano dal torpore quotidiano proprio quando stava per addormentarsi ennesimamente davanti al piccolo schermo.

La prova della De Sio è convincente, a tratti la recitazione appare lievemente manieristica ma resta salda la capacità di tenere lo spettacolo da gran protagonista sino al finale in cui la regia di Enrico Maria Lamanna aggiunge, rispetto al testo di Ruccello, la reazione agghiacciata di Michele alla vista della moglie imbrattata di sangue. Una moglie fuori dal mondo, che pensa solo ai suoi figli: l'unica preoccupazione reale in ogni momento resta quella che potrebbero svegliarsi, insieme alla tosse di uno dei due, Alfredino. Per il resto è una donna remissiva, subisce tutti a partire da Rosanna, è ingenua, influenzabile. Insieme ai suoi ospiti finalmente ride, si diverte, accetta le avances di Arturo . Insiste affinché restino ancora, perché "ha diritto ogni tanto ad un po' di distrazione".

Straordinariamente brava la De Cicco, brillante anche Gino Curcione nei panni dei genitori di Adriana (un padre remissivo e una madre opprimente). Un testo ricco di emozioni forti, sentimenti contrastanti, tradimenti e promiscuità, violenza tipica delle metropoli moderne, colpi di scena, straziante alienazione, risate anche nel dramma e con un finale catartico. Colpisce e sorprende ancora oggi la bravura di Ruccello nel rilevare i risvolti più cupi dei rapporti interpersonali, le brutture del progresso, la violenza domestica, la frustrazione del quotidiano e la complessità dell'animo femminile. Applausi scroscianti in sala, dove alla prima del Bellini c'è anche la madre dell'autore, la signora Giuseppina De Nonno Ruccello. A prescindere da questo, Annibale è ancora tra noi con la maestria della sua opera.

Cristiano Esposito
    
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sabato 1 novembre 2014

Le voci di Eduardo secondo Toni Servillo al San Ferdinando di Napoli

"Le voci di dentro" è una commedia immortale, come tutte le grandi opere e come il pensiero di un grandissimo come Eduardo De Filippo, in questo caso incentrato sulla disgregazione della famiglia. Scritta nel 1948 ed inserita nella "Cantata dei giorni dispari", è ancora una commedia inquietantemente attuale, che ci parla di noi in quanto napoletani, italiani ed esseri umani. E quando una commedia immortale si incontra con la grande qualità di un attore e regista come Toni Servillo andare a teatro dovrebbe essere irrinunciabile. A dieci anni da "Sabato, domenica e lunedì", l'attore-feticcio cinematografico di Paolo Sorrentino torna a rileggere e a reinterpretare Eduardo con discrezione e sapienza. E lo fa appunto con una commedia dal sapore contemporaneo, popolare, sospesa tra realtà e illusione, che scava nella cattiva coscienza del genere umano. Un sogno confuso con la realtà spinge il protagonista Alberto Saporito a denunciare la famiglia Cimmaruta per un delitto mai commesso. Ciò, nonostante la ritrattazione di Alberto, causa l'implosione delle relazioni familiari, proprio quelle che generalmente si crederebbero le più stabili. E allora ci si accusa a vicenda senza fare autocritica, si mette tranquillamente un assassinio nel bilancio di famiglia, si assiste alla caduta dei valori fondamentali e all'agghiacciante indifferenza di cui tutti siamo al tempo stesso vittime e carnefici. I Cimmaruta sono quindi tutti un po' colpevoli dell'omicidio della "stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacia con noi stessi". La concordia familiare sembra ristabilirsi, in maniera ancor più raccapricciante, solo quando i Cimmaruta si accordano per uccidere Alberto durante una gita in campagna.

Lo spettacolo torna a Napoli a grande richiesta dopo le poche repliche dell'anno scorso sempre al San Ferdinando e dopo una trionfale tournée internazionale. Quasi tutti i personaggi appaiono forti e ben caratterizzati, la regia ordinata e fluida. Straordinarie le performances dei fratelli Servillo: Peppe risponde colpo su colpo alla maestria di Toni, conquistando qualche risata in più grazie alla natura del personaggio, interpretato alla perfezione e che gli permette di sfoggiare una grande mimica. Il suo Carlo Saporito si addormenta sul finale e russa come la cameriera Maria (la brava Chiara Baffi), nel cui sogno sta tutto il significato della commedia, fa nel quadro iniziale.

Altra missione compiuta per Toni Servillo, che rende in modo efficace ed equilibrato la cupezza, la comicità amarissima e il pessimismo eduardiano, perfettamente inseriti nel secondo dopoguerra così come nella nostra epoca. C'è poi il silenzio, tanto silenzio pieno di senso, l'ormai proverbiale silenzio eduardiano. Come quando Toni Servillo/Alberto Saporito si porta sul ciglio della ribalta e dichiara con gli occhi sgranati: "Je me l'aggio sunnato!". Come quando Zi' Nicola torna a parlare invocando un po' di pace e le luci di Cesare Accetta si fanno fredde. Come quando, alla fine della rappresentazione, i due fratelli Saporiti si siedono molto distanti, fissandosi a lungo. In un eloquente e inquietante silenzio. Poi, come detto, Carlo si addormenta e Alberto resta solo, con le sue voci di dentro, con le sue paure, i dubbi, i sogni e le amnesie che hanno dato forma ad una triste realtà.


Cristiano Esposito


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mercoledì 29 ottobre 2014

Risate di qualità e tradizione con i fratelli Gallo al Totò di Napoli

Passano gli anni, si succedono le edizioni e gli interpreti (fratelli Gallo a parte) ma il risultato non cambia. “Ti ho sposato per ignoranza”, di Gianfranco Gallo da un’antica farsa di Pasquale Petito (“’A scarrecavarrile”, cioè la scaricabarile), è una miniera di battute e risate figlie della più nobile tradizione teatrale partenopea, una formidabile e immortale macchina comica congegnata perfettamente che continua a divertire enormemente il pubblico.

A inizio spettacolo, davanti al sipario chiuso, alcuni attori raccontano brevemente le vicende di celebri famiglie teatrali napoletane al fianco di riproduzioni fotografiche delle stesse, che resteranno poi affisse sulle pareti della scena. Tra i Maggio, i Petito, gli Scarpetta, i Viviani, i De Filippo, ci sono anche i Giuffrè, fondamentali nell’incontro tra Nunzio Gallo e Bianca Maria Varriale. Da loro nasceranno Gianfranco e Massimiliano, che da trent’anni calcano set e palcoscenici con grande bravura. Prova emblematica ne è  questa storia di tradimenti e perdoni, che trova il suo segreto nella comicità genuina di tradizione e nel grande ritmo, impresso fin dalle prime battute. La semplice trama vede Totonno Savino (Gianfranco Gallo), un ignorante uomo di mezza età, discutere in continuazione con sua moglie (Giusy Freccia). Il suo amico Alfredo (Massimiliano Gallo) è invece un invadente personaggio che spesso irrompe nella casa dei due coniugi e intrattiene una relazione extraconiugale all’insaputa di sua moglie Amalia (Bianca Gallo). Gli esilaranti equivoci che ne deriveranno proseguiranno verso il lieto fine anche con le irruzioni di Gianluca Di Gennaro, bravissimo nel suo ruolo di gagà napoletano, e della cameriera di Totonno, la brillante caratterista Anna De Nitto.
 

Una compagnia di tutto di rispetto insomma, a completare gli ingredienti necessari per una commedia di qualità, semplice ed essenziale ma allo stesso tempo rigorosa e professionale. Tante risate in platea e in scena, tra gli attori che improvvisano e si divertono anch’essi soddisfando una passione vera, tramandata da una famiglia di artisti. Lo spettatore viene trascinato in un’epoca passata ma fondamentalmente indefinita, fermo restando l’attualità dei temi e la vicinanza al moderno sentire. La comicità generosa dei protagonisti attinge a piene mani agli immortali equivoci verbali (figli dell’ignoranza del protagonista, presente già nel titolo della rappresentazione) ed a situazioni classiche come quella della lettera, che i fratelli Gallo rinnovano senza scimmiottare nessuno degli illustri predecessori. “Ho voluto coprire i divani e gli arredi di scena con un lenzuolo bianco, perché il teatro oggi viene tristemente coperto”, afferma Gianfranco Gallo. Ma gli applausi del pubblico divertito scoprono in maniera lampante l’apprezzamento sempre vivo per questo genere di teatro. Lo spettacolo, che apre la stagione del teatro Totò di Napoli, resta in scena fino a domenica 2 novembre. Ritroveremo poi con piacere sul palcoscenico i fratelli Gallo e Gianluca Di Gennaro all’inizio del 2015, con “Fammi fare un gol”.

Cristiano Esposito
 
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sabato 18 ottobre 2014

Le domande e le riflessioni di Stefano Sarcinelli al Sancarluccio di Napoli

La seconda, ricca, stagione del Nuovo Teatro Sancarluccio di Napoli si è aperta con Peppe Miale e prosegue in questi giorni con "...chiedetelo a Pappagone!", di e con Stefano Sarcinelli. Una particolare forma di teatro cabaret-canzone, con Ugo Gangheri e Antonio De Carmine alle chitarre, Mauro Spenillo alla fisarmonica e Carletto Di Gennaro alle percussioni. I quattro, in special modo Gangheri, si dimostrano a proprio agio anche recitando nel ruolo di spalle di Sarcinelli. La Bibbia è il pretesto per porsi domande esistenziali e raccontare storie, pensieri e personaggi mai banali, senza cadere nei soliti argomenti classici dei monologhi cabarettistici. L'attualità viene scandagliata con intelligenza e puntellata da buona musica degli anni '70 (ma anche da brani originali), tra Pistorius, i Led Zeppelin e il presepe. Buona la trovata del format "Song Chef", momento in cui i cinque sul palco cucinano canzoni, prima da soli e poi con il coinvolgimento del pubblico. Irresistibile il personaggio del signor Farlocco, proprietario dell'industria dolciaria omonima nonché finto sponsor dello spettacolo. Sarcinelli attraverso lui racconta un po' del marcio raccapricciante del nostro belpaese, scatenando allo stesso tempo grandi risate. Non poteva mancare una deliziosa versione acustica di "Targato Na" eseguita da De Carmine e Spenillo, in arte "Principe e Socio M.", insieme a Di Gennaro. Di grande effetto anche il crescendo di una ballata che narra la storia di un disoccupato, appena licenziato, che decide di distrarsi cucinando la genovese per alcuni suoi amici.

La regia di Enrico Maria Lamanna tiene insieme i quadri in maniera abbastanza coerente, per uno spettacolo semplice e leggero ma intelligente, ben scritto, fatto di riflessioni, disillusioni, paure e delusioni. Le domande esistenziali, quelle restano senza risposte come è giusto che sia, fatto salvo lo spunto di vedere Dio come un padre dei tempi moderni: assillato e pregato continuamente quando serve, ma allo stesso tempo incolpato ingiustamente di tutto o quasi.

Cristiano Esposito
  


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