
Quando Dario Danise (Daniele
Russo) ne varca la soglia, affinché venga stabilito se la sua malattia mentale
è reale o soltanto simulata per sfuggire alla galera, comincerà la messa alla
berlina di quel sistema di regole ottuse che mortifica i pazienti. Con la sua
napoletanità verace, la sua umanità, il suo trattare i compagni di reparto come
persone "normali" ridarà loro la forza di esprimere emozioni e
desideri, ma soprattutto un po' di coraggio in più per affrontare il mondo
esterno. Perché questa è anche una storia sulla paura; paura di cambiare gli
schemi, della propria inadeguatezza e differenza rispetto al mondo. Anche se
appena si alza il sipario il primo a sembrare pazzo è l'inserviente che prova a
ballare come Raffaella Carrà. Ma essere diversi, avere una qualche patologia,
dei comportamenti non convenzionali in questa società è umano. Sopprimere la
libertà altrui inopinatamente e con violenza non lo è per niente. E allora
Dario gioca a calcio con gli altri nell'ospedale, organizza una festa,
introduce una prostituta per un compagno ancora vergine in un luogo dove la
sessualità viene sistematicamente repressa, come i giochi e le passioni.
Inevitabile la guerra contro Suor Lucia (Elisabetta Valgoi) e il suo epilogo, che
lo porterà all'elettroshock, alla lobotomia e poi alla morte per mano di chi ha
imparato presto a volergli bene e vuole evitargli ulteriori sofferenze. Ancora
terapizzato brutalmente, quindi, il personaggio di Daniele Russo, che
ricordiamo ancora immobilizzato in condizioni simili per la cura Ludovico di "Arancia
meccanica".
Uno spettacolo pregno, lungo e
controproducente da raccontare oltre. Tutto nacque con il romanzo di Ken Kesey
nel 1962, "One flew over the cuckoo’s nest". Lo scrittore, dopo
un’esperienza come volontario in un ospedale psichiatrico californiano, decise
di mettere tutto nero su bianco, testando su sé stesso droghe psicoattive. Nel
1971 Dale Wasserman lavorò all'opera teatrale per Broadway. Quindi, quattro
anni più tardi, il celebre film di Milos Forman con Jack Nicholson. L’adattamento
immediato e fluido di Maurizio de Giovanni, dalla versione italiana di Giovanni
Lombardo Radice, sancisce ancora una volta l'immortalità di questa grande
storia che simboleggia anche il rapporto tra individuo e potere. Perché come
dice Dario, "democrazia e pazzia so' 'a stessa cosa". Il suo
personaggio instaura con il pubblico una grande empatia, da verificare anche al
di fuori dei confini campani.

Davvero una grande prova da parte di tutta la compagnia, con in primo piano le performance di Daniele Russo, Marco Cavicchioli e Giacomo Rosselli. Sono tutte interpretazioni non semplici e vale la pena citare tutti gli altri: Gilberto Gliozzi, Mauro Marino, Daniele Marino, Alfredo Angelici, Giulio F. Janni, Gabriele Granito, Antimo Casertano e Giulia Merelli. Convincente anche la regia di Gassmann, che continua a ritagliarsi una propria cifra stilistica. Le videografie di Marco Schiavoni materializzano le allucinazioni dei pazienti ma non solo: risultano gradevoli anche i titoli di coda che presentano gli attori, già visti in "Riccardo III". Da ciò, dal quadro finale e da altri elementi si evince il gusto del regista nel miscelare cinema e teatro. D'effetto la scena fredda e asettica di Gianluca Amodio, illuminata da Marco Palmieri. I costumi, con abiti originali dell'epoca, sono di Chiara Aversano, mentre le musiche originali di Pivio & Aldo De Scalzi sono spesso appena accenni, brevi contrappunti di venature blues (non sarà un caso che Dario canticchia "A me me piace 'o blues" di Pino Daniele di prima mattina), punteggiature elettroniche, talvolta vivaci e scanzonate, quasi in contrasto con certe azioni drammatiche. Dopo aver assistito ad una produzione del genere stona ancor di più la disattenzione ministeriale verso il teatro Bellini, perché il rilevante interesse culturale qui si avverte tutto.
Cristiano Esposito