Un
dramma corale, in cui tutti i personaggi hanno il loro spazio e il loro
spessore, che non disdegna diverse incursioni nella comicità corrosiva. Si
potrebbe riassumere sinteticamente in questi termini “La gatta sul tetto che
scotta” che vede protagonisti Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, per la
regia di Arturo Cirillo. Emerge tutta la forza e la magistrale tensione
narrativa di un testo per cui Tennessee Williams ottenne il suo secondo Premio
Pulitzer nel 1955, dopo quello vinto da “Un tram che si chiama desiderio”. Tre
anni dopo venne poi il film di Richard Brooks con Elizabeth Taylor e Paul
Newman, con sei nomination agli Oscar.
Colpisce
nel segno ancora oggi la storia di “Maggie la gatta” (Vittoria Puccini), donna
di bassa estrazione sociale che deve scontrarsi contro il muro di ipocrisia che
regna nella famiglia del marito Brick (Vinicio Marchioni). Quest’ultimo,
schiavo dell’alcol a causa del disgusto per l’ipocrisia che lo circonda, non
sembra amarla né desiderarla. Anzi, spesso non la sopporta. Suo fratello (Francesco
Petruzzelli) e sua cognata (Clio
Cipolletta) sfornano figli a ripetizione e agiscono per assicurarsi la cospicua
eredità del padre di lui (Paolo Musio), che non sa ancora di avere un cancro.
Maggie vorrebbe concepire un erede per non essere buttata giù dal tetto che
scotta sopra una casa che brucia, che pure ha conquistato con fatica. Ma oltre
alla posizione sociale le sta a cuore anche l’amore e per questo finge di
aspettare un figlio da Brick. Lo annuncia mettendosi a carponi come i gatti, posizione
che assume mentre pronuncia diverse battute chiave. In mezzo a tutto questo
riemerge il passato, con l’amicizia di Brick con Skipper, morto suicida e di
cui si vocifera un’omosessualità condivisa proprio col primo.
L’intreccio
di sentimenti, falsità e conflitti è forte ed in grado di reggere la
rappresentazione assieme alla buona prova di tutto il cast. L’amore e la
felicità che Maggie insegue ostinatamente sono impossibili anche a causa
dell’aridità e delle falsità della famiglia di Brick, che vive per i soldi e il
successo. La prima parte dello spettacolo è tutta della Puccini in grande
spolvero, una Maggie acida, insofferente, velenosa, dalla voce graffiata e
graffiante come una gatta. Prova a far ingelosire vanamente Brick, ma lui
desidererebbe addirittura che lei avesse un amante e si anima solo quando si
parla di Skipper. La seconda parte vede al centro il confronto tra Brick e suo
padre. “Ma che festa meravigliosa stasera!”, esclama quest’ultimo, quando in
realtà tutti in famiglia si odiano, mentono, sono falsi e si combattono a suon
di sarcasmi amari. Grande interpretazione, in questa parte centrale, di Musio e
di Marchioni, il quale dialoga splendidamente anche su una gamba sola (Brick ha
un piede rotto e ingessato per l’arco di tutta la storia). “La vita ci rende
bugiardi. Io sono così poco vivo da dire la verità”. E gli scappa del cancro
del padre. La risoluzione finale è l’annuncio di ciò alla madre (Franca Penone)
e la bugia di una Maggie che in realtà non è incinta ma arriva addirittura a
strappare a Brick un “ti ammiro” e a farsi spalleggiare contro le invettive del
fratello di lui e della cognata. La scena di Dario Gessati ci porta nell’unico
interno della camera da letto di Maggie e Brick, con un muro che in determinati
frangenti si apre e lascia intravedere un po’ di vegetazione.
La regia di Cirillo si mantiene efficacemente asciutta e conservatrice. Uno
spettacolo ben orchestrato, con ottime caratterizzazioni forti del testo di cui
sopra, che per due ore rapisce lo spettatore con interesse e divertimento.
Cristiano
Esposito
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