martedì 11 febbraio 2014

L'immortalità della giustizia secondo Gennaro Morrone, al Cilea di Napoli


Si pone interrogativi cruciali e complicati "La giustizia è immortale", il nuovo spettacolo di Gennaro Morrone che debutta al teatro Cilea di Napoli il 17 febbraio. Esiste la giustizia? Che cosa è realmente? Secondo l'attore partenopeo la giustizia è la linfa vitale di ogni società civile, il valore che permette di trattare ogni essere umano allo stesso modo nel rispetto della sua libertà. E' un bisogno primario particolarmente sentito, profondo, che deve essere garantito dallo Stato in cui viviamo influenzando positivamente la nostra esistenza civile, sociale ed economica. Questa la teoria, che trova più o meno una pratica applicazione nella realtà. Gennaro Morrone ha scritto questo testo dopo aver letto articoli, interviste, documenti, dichiarazioni di giudici, politici, pentiti. Alcune di queste affermazioni sono inserite nella rappresentazione, che inizia con la citazione colta del "De Officiis" di Cicerone

L'interessante idea di fondo diventa ancora più affascinante in un'Italia in cui l'enorme ingerenza del potere politico genera norme sempre più invasive e che arrivano a rappresentare un ostacolo per i magistrati come Gennaro Capone, giudice napoletano prossimo alla pensione, protagonista della trama. Un magistrato serio, onesto, preparato, che non ha mai voluto ricoprire ruoli influenti perché contrario alle raccomandazioni e alle lobby politiche. Dopo l'uccisione del giudice Falcollino, però, Capone viene nominato responsabile del pool antimafia precedentemente guidato dal magistrato scomparso. Già turbato dalla morte violenta del giovane figlio, il protagonista dovrà lottare e soffrire ancora contro l'ingiustizia. Alle ipocrisie, prepotenze, insinuazioni, calunnie, invidie, si aggiungerà anche la dipartita di un giovane giornalista a lui caro, Marco Miani. Ma Capone non si arrenderà e combatterà con audacia, perché "chi vede il giusto e non lo fa è senza coraggio".

C'è questo e molto altro nello spettacolo. C'è la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione, al clientelismo. Insomma c'è tutto ciò che è ingiustizia, un qualcosa che bisogna iniziare a combattere dalle scuole, sviluppando il senso civico dei più giovani per far trionfare una legalità che porta benefici individuali e collettivi, elevando la nostra qualità di vita. Così come hanno fatto i tanti magistrati, uomini delle forze dell'ordine, giornalisti e prelati che hanno sacrificato a questa causa la propria vita, ai quali questo spettacolo è dedicato. In special modo il pensiero va a don Peppe Diana, le cui parole fanno calare il sipario: "Per amore del mio popolo non tacerò".

Cristiano Esposito

 
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Gli Esposito di Pino Imperatore si mostrano in carne e ossa all'Augusteo di Napoli

La saga degli Esposito ha appassionato decine di migliaia di lettori negli ultimi due anni grazie alla capacità di Pino Imperatore di smontare con leggerezza l'alone di solennità che si era creato attorno al problema della camorra. Troppi film, fiction e storie ammantate da un'aura volutamente fascinosa avevano veicolato in maniera sbagliata, anche speculandoci su, un fenomeno che se veramente si vuole combattere va trattato in maniera diversa. Magari come fa Imperatore, che prova a offuscare l'immagine negativa di Napoli ridicolizzando la malavita e riflettendo sulla sua pochezza, scontatezza, sul suo squallore. "Benvenuti in casa Esposito", trasposizione teatrale di entrambi i libri finora editi, ha impegnato nella scrittura del copione l'autore della storia su carta e Paolo Caiazzo, con la collaborazione di Alessandro Siani. Tutto ruota attorno a  Tonino Esposito (Paolo Caiazzo), un uomo fondamentalmente buono del rione Sanità di Napoli che viene trascinato nella camorra dal contesto in cui cresce, figlio del boss Gennaro morto ammazzato da Don Pietro (Gennaro Silvestro) che ora dà lavoro al protagonista inviandolo a fare il giro degli esercizi commerciali per esigere il pizzo. Ma Tonino non è tagliato per fare il mestiere del camorrista e nelle sue disavventure coinvolge inevitabilmente la sua famiglia, composta (a teatro, dove non vediamo il piccolo Genny e il coniglio Giggetto) da sua moglie Patrizia (Loredana Simioli), sua figlia (Federica Altamura), sua madre (Maria Rosaria Virgili), i suoceri (Nunzia Schiano e Salvatore Misticone) e l'iguana Sansone (la cui voce è prestata da Giacomo Rizzo). Prova a guidare il maldestro criminale l'apparizione di un Capitano spagnolo (Mimmo Esposito), sepolto da quattrocento anni nel cimitero delle Fontanelle, voce della coscienza che con la sua domanda farà calare il sipario alla fine: «È meglio essere senza soldi e andare a testa alta in famiglia oppure avere soldi e potere e camminare a testa bassa, fuggendo continuamente da tutti e da tutto?». "Vi conviene?", chiede infine a Tonino e soprattutto ai giovani in sala.

L'originale idea di Pino Imperatore conserva la sua freschezza anche in teatro, dove guadagna qualcosa nel piacere di mostrare in carne e ossa i folcloristici Esposito ma perde in consistenza e compattezza, spezzettata com'è nelle singole scene accompagnate da un titolo in videoproiezione che talvolta richiama i capitoli dei libri. Gli inserti video, tanto in voga nelle moderne commedie teatrali, remano nella stessa direzione puntando sui volti noti della trasmissione televisiva "Made in sud". Emerge su tutto la maestria comica di Paolo Caiazzo, le cui battute e intonazioni innescano diversi applausi specie nei duetti con Mimmo Esposito e la cui penna arricchisce con intelligenza la vicenda dei romanzi. Il suo Tonino dondola come un bambino, appare spesso mortificato, si rende tenero parlando con la "zeppola", sigmatismo che lo fa adottare ancor di più dal pubblico. Abbandona il difetto di pronuncia soltanto quando, vestito da padrino, si impettisce e per pochi attimi pensa davvero di poter diventare il "boss delle riforme che istituirà il pizzo sulla prima casa", sostituendo Don Pietro. La domanda del Capitano ci lascia con un finale aperto, anche se a quel punto è facilmente intuibile cosa non potrà mai essere Tonino.


Le scene di Roberto crea sono ben congegnate, ruotano a vista e cambiano rapidamente ambientazione in maniera gradevole agli occhi, esaltando dietro un fondale trasparente le scene cruciali e più suggestive (vedi quelle ambientate al cimitero delle Fontanelle). I costumi sono di Mattia Sartoria, le musiche di Frank Carpentieri. La sensazione finale è che si poteva fare di più, rendendo meglio giustizia all'opera letteraria, molto meno scontata nella struttura, nelle battute e in ciò che lascia dentro al lettore/spettatore. Gli applausi e le risate del pubblico partenopeo, ad ogni modo, consacrano ancora gli Esposito pronti a sbarcare anche al cinema l'anno prossimo.

Cristiano Esposito

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sabato 8 febbraio 2014

Il lato amaro e drammatico di Sik Sik secondo Pierpaolo Sepe

In “Sik Sik, l’artefice magico”, atto unico scritto da un giovane Eduardo De Filippo nel 1929, ci sono tutti i semi di ciò che caratterizzerà l’opera a venire del grande drammaturgo. C’è la fame, la miseria, il riso amaro, i rapporti umani, l’arrabbattarsi per la dignità in ogni modo, la malinconia: in una parola, la vita. La vita osservata avidamente, studiata e poi riprodotta sul palco con lo stile inconfondibile dell’arte eduardiana. L’opera racconta la storia di un illusionista sgangherato, appunto Sik Sik, che si esibisce con la moglie incinta in teatri di quart’ordine. Chi gli fa abitualmente da assistente per lo spettacolo fingendosi un volontario del pubblico tarda a venire e Sik Sik è costretto a sostituirlo col primo passante che incontra. I tre numeri “magici” falliranno miseramente causando imbarazzo e ambasce nel mago e in sua moglie. 

La regia di Pierpaolo Sepe rilegge con discrezione il capostipite dei personaggi eduardiani, adattandolo ai giorni nostri, dove pure miseria e incomunicabilità persistono tragicamente. Utilizza per questa messa in scena la registrazione della versione che Eduardo portò in scena al San Ferdinando di Napoli nel 1979, conservata da Giulio Baffi, piena di improvvisazioni e lazzi non presenti in quella originale. E proprio dalla voce del maestro si comincia, unica cosa che resta della registrazione Rai facente parte del ciclo di commedie del 1962. Nella penombra del teatro Nuovo è forte la suggestione nell’ascoltare la genesi di Sik Sik, scritto in treno per una rivista da rappresentare proprio su quel palco. Ed è ancora più emozionante sentire Eduardo confessare con candore come Sik Sik fosse il personaggio più amato da lui e che lo accompagnò per quattrocentocinquanta repliche sempre con lo stesso, grande successo. Si alza poi il sipario, le luci che illuminano gli attori sono fredde come la fame che li attanaglia, più calde appaiono soltanto quelle che bagnano direttamente il retropalco prima, e la scena poi del palco nel palco su cui si esibirà Sik Sik. Il suo linguaggio che storpia le desinenze è eternamente comico ed evidenzia la grande inventiva di Eduardo a riguardo, che qui arriva a tratti a lambire il surreale. Sepe, che immerge i personaggi nel dramma e nell’amarezza fin sopra la testa, spinge anche sul pedale delle schermaglie fisiche accentuate per suscitare risate. Benedetto Casillo rende con efficacia l’inadeguatezza di Sik Sik, insieme con la menzogna dei suoi espedienti che falliscono e lo riconducono ancor di più nel baratro di una vita misera e nomade.  I giochi di prestigio dovrebbero riscattare un’esistenza senza dignità, senza onore né gloria: ciò non accade e il piatto della bilancia dell’amarezza finisce per prevalere su quello della comicità. Ma in fin dei conti la dignità cercata da Sik Sik è quella esteriore, tutta forma e niente sostanza, quella che ancora regna nella Napoli attuale del “pare brutto”. 

Uno spettacolo volutamente scarno, astratto, simbolico, dove non vediamo né i catenacci, né i colombi, né i bicchieri, né la cassa in cui viene chiusa la moglie dell’illusionista. Vediamo però il pollastro che umilia per l’ultima volta Sik Sik, che con la moglie ride e piange amaramente salutando con una serie di inchini il pubblico, mentre la scatola del palco ingoia entrambi richiudendosi. All’altezza del protagonista il cast costituito da Aida Talliente, attrice friulana che qui bagna il suo napoletano in un accento che sembra dell’est Europa, Marco Manchisi, che ricorda a tratti l’interpretazione di Luca De Filippo, e Roberto Del Gaudio, che si prodiga nell’interpretare un guappo classico dall’aspetto ben curato. Le scene, essenziali. sono di Francesco Ghisu, le luci Cesare Accetta, i costumi di Annapaola Brancia D’Apricena.  

Cristiano Esposito

  
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