giovedì 16 aprile 2015

Il trio vincente de Giovanni-Gassmann-Russo e una storia immortale: "Qualcuno volò sul nido del cuculo" al Bellini di Napoli

Maurizio de Giovanni, Alessandro Gassmann e tutta la compagnia sul palco di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" hanno realizzato con questo spettacolo qualcosa di non facile. Non è facile emozionare così, senza usare scorciatoie né retorica e con l'ombra di un film capolavoro che incombe alle spalle (riuscì a vincere i cinque Oscar principali come solo "Accadde una notte" e "Il silenzio degli innocenti"). Non è facile scegliere di far durare uno spettacolo quasi tre ore e quasi non farle avvertire al pubblico, pienamente addentro alla narrazione, rapito e ammirato. Non è facile nemmeno scavare e caratterizzare così bene i personaggi e azzeccare tutti gli attori per ognuno di essi. Gli spettatori avvertono che non è facile realizzare uno spettacolo come questo e rispondono con delle autentiche ovazioni dopo il finale. Di certo la sua parte la fa anche una grande storia, semplice e universale ma di grande potenza e impatto. Come scrive De Giovanni, una grande storia di amicizie, tenerezze e rancori, adattata come se fosse stata pensata proprio per ambientarla nell'ospedale psichiatrico di Aversa nel 1982. 

Quando Dario Danise (Daniele Russo) ne varca la soglia, affinché venga stabilito se la sua malattia mentale è reale o soltanto simulata per sfuggire alla galera, comincerà la messa alla berlina di quel sistema di regole ottuse che mortifica i pazienti. Con la sua napoletanità verace, la sua umanità, il suo trattare i compagni di reparto come persone "normali" ridarà loro la forza di esprimere emozioni e desideri, ma soprattutto un po' di coraggio in più per affrontare il mondo esterno. Perché questa è anche una storia sulla paura; paura di cambiare gli schemi, della propria inadeguatezza e differenza rispetto al mondo. Anche se appena si alza il sipario il primo a sembrare pazzo è l'inserviente che prova a ballare come Raffaella Carrà. Ma essere diversi, avere una qualche patologia, dei comportamenti non convenzionali in questa società è umano. Sopprimere la libertà altrui inopinatamente e con violenza non lo è per niente. E allora Dario gioca a calcio con gli altri nell'ospedale, organizza una festa, introduce una prostituta per un compagno ancora vergine in un luogo dove la sessualità viene sistematicamente repressa, come i giochi e le passioni. Inevitabile la guerra contro Suor Lucia (Elisabetta Valgoi) e il suo epilogo, che lo porterà all'elettroshock, alla lobotomia e poi alla morte per mano di chi ha imparato presto a volergli bene e vuole evitargli ulteriori sofferenze. Ancora terapizzato brutalmente, quindi, il personaggio di Daniele Russo, che ricordiamo ancora immobilizzato in condizioni simili per la cura Ludovico di "Arancia meccanica".
  
Uno spettacolo pregno, lungo e controproducente da raccontare oltre. Tutto nacque con il romanzo di Ken Kesey nel 1962, "One flew over the cuckoo’s nest". Lo scrittore, dopo un’esperienza come volontario in un ospedale psichiatrico californiano, decise di mettere tutto nero su bianco, testando su sé stesso droghe psicoattive. Nel 1971 Dale Wasserman lavorò all'opera teatrale per Broadway. Quindi, quattro anni più tardi, il celebre film di Milos Forman con Jack Nicholson. L’adattamento immediato e fluido di Maurizio de Giovanni, dalla versione italiana di Giovanni Lombardo Radice, sancisce ancora una volta l'immortalità di questa grande storia che simboleggia anche il rapporto tra individuo e potere. Perché come dice Dario, "democrazia e pazzia so' 'a stessa cosa". Il suo personaggio instaura con il pubblico una grande empatia, da verificare anche al di fuori dei confini campani.

Davvero una grande prova da parte di tutta la compagnia, con in primo piano le performance di Daniele Russo, Marco Cavicchioli e Giacomo Rosselli. Sono tutte interpretazioni non semplici e vale la pena citare tutti gli altri: Gilberto Gliozzi, Mauro Marino, Daniele Marino, Alfredo Angelici, Giulio F. Janni, Gabriele Granito, Antimo Casertano e Giulia Merelli. Convincente anche la regia di Gassmann, che continua a ritagliarsi una propria cifra stilistica. Le videografie di Marco Schiavoni materializzano le allucinazioni dei pazienti ma non solo: risultano gradevoli anche i titoli di coda che presentano gli attori, già visti in "Riccardo III". Da ciò, dal quadro finale e da altri elementi si evince il gusto del regista nel miscelare cinema e teatro. D'effetto la scena fredda e asettica di Gianluca Amodio, illuminata da Marco Palmieri. I costumi, con abiti originali dell'epoca, sono di Chiara Aversano, mentre le musiche originali di Pivio & Aldo De Scalzi sono spesso appena accenni, brevi contrappunti di venature blues (non sarà un caso che Dario canticchia "A me me piace 'o blues" di Pino Daniele di prima mattina), punteggiature elettroniche, talvolta vivaci e scanzonate, quasi in contrasto con certe azioni drammatiche. Dopo aver assistito ad una produzione del genere stona ancor di più la disattenzione ministeriale verso il teatro Bellini, perché il rilevante interesse culturale qui si avverte tutto.

Cristiano Esposito

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martedì 14 aprile 2015

Paternità, adozioni e cavilli: la famiglia quasi perfetta di Buccirosso al Cilea di Napoli

carlo buccirosso teatro una famiglia quasi perfetta
E’ un personaggio che non ti aspetti quello che interpreta Carlo Buccirosso nella nuova commedia da lui scritta e diretta, “Una famiglia…quasi perfetta!”. Soprattutto dopo i vari Don Guglielmo in “Finché morte non vi separi”, Mario Buonocore in “La vita è una cosa meravigliosa…” e il ristoratore in disgrazia Alberto Pisapia in “Il miracolo di don Ciccillo”. Tutti protagonisti vittime, remissivi, sulla cui indole appoggiare la macchina comica e certe atmosfere farsesche che qui si tingono maggiormente di giallo e suspense. Buccirosso veste ora i panni di Salvatore Troianiello, un padre appena uscito di galera che vuole andare a riprendersi con ogni mezzo suo figlio, adottato più di vent’anni prima da una coppia felice e che si credeva una famiglia perfetta. Cinico, brusco, acido, violento, fa la voce grossa come mai prima, se non nel Don Rodrigo comunque cialtrone de “I compromessi sposi”. Crede di aver ormai espiato le sue colpe, pretende che il buonsenso scavalchi il disordine legislativo e la mancanza di tutela del cittadino. Da soli sei giorni ha finito di scontare un terzo di vita in carcere per l’omicidio di sua moglie, si è trovato una fidanzata e ora rivuole il figlio che aveva abbandonato. Un figlio che nelle dimensioni è rimasto quello che aveva lasciato a causa di un morbo, ma questo lui non lo sa. “M’aggia fa’ ‘na famiglia!”, continua a ripetere con rabbia in attesa di rivederlo. “La paternità viene prima dell’adottabilità”. E’ ricco e può permettersi di tenere in ostaggio con quindicimila euro di acconto l’avvocato che aveva decretato l’adozione tanti anni prima. Ma Pinuccio, un cervello adulto nel corpo di un bambino in un mondo di corpi adulti con un cervello da bambini, non può non rispettare e amare la famiglia che lo ha “cresciuto”. 

carlo buccirosso teatro una famiglia quasi perfetta
Il primo atto si conclude in uno stile pulp che spiazza visibilmente gli spettatori. D’altronde oggi i delitti familiari si pensano e si consumano in poche ore, senza alcun preavviso. La commedia assume così toni drammatici che si scioglieranno soltanto dopo l’intervallo, a qualche minuto dalla riapertura del sipario. Non sveliamo nient’altro di questo spettacolo denso, per niente scontato e sorprendente anche per il pubblico fidelizzato di Carlo Buccirosso. Che dimostra di saper far ridere anche attraverso l’aggressività, ostacolando l’immedesimazione del pubblico col suo personaggio, tutto negativo fino alla penultima scena. La satira sulle contraddizioni della legge, su un paese per il quale “non esistono i buoni e i cattivi”, sulla disabilità nel mondo del lavoro, sfocia nel finale in un’affermazione che motiva tutte le azioni del protagonista: “senza famiglia nun si’ nisciuno”. Buccirosso ci fa ancora una volta ridere e riflettere su tematiche importanti, con i soliti ritmi serrati, il suo modo unico ed esilarante di porgere la battuta trascinandola, una storia che sfora le due ore (che andrebbero lievemente limate e ridotte) e si conclude con un epilogo reale, non lieto fino in fondo. La compagnia è di buon livello: Rosalia Porcaro (che strappa diverse risate quando si altera con la voce della suocera di Veronica, suo celebre personaggio), Gino Monteleone, l’asso nella manica Davide Marotta, Tilde De Spirito, Peppe Miale, Fiorella Zullo e Giordano Bassetti. Le curate scenografie sono di Gilda Cerullo e Renato Lori. Un teatro mai banale, mai scontato, per ridere in maniera intelligente con un autore che pochi sanno essere arrivato già alla sua nona commedia.

Cristiano Esposito

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sabato 11 aprile 2015

La gatta Puccini di Cirillo graffia e diverte al Diana di Napoli

Vittoria Puccini La gatta sul tetto che scotta
Un dramma corale, in cui tutti i personaggi hanno il loro spazio e il loro spessore, che non disdegna diverse incursioni nella comicità corrosiva. Si potrebbe riassumere sinteticamente in questi termini “La gatta sul tetto che scotta” che vede protagonisti Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, per la regia di Arturo Cirillo. Emerge tutta la forza e la magistrale tensione narrativa di un testo per cui Tennessee Williams ottenne il suo secondo Premio Pulitzer nel 1955, dopo quello vinto da “Un tram che si chiama desiderio”. Tre anni dopo venne poi il film di Richard Brooks con Elizabeth Taylor e Paul Newman, con sei nomination agli Oscar

Colpisce nel segno ancora oggi la storia di “Maggie la gatta” (Vittoria Puccini), donna di bassa estrazione sociale che deve scontrarsi contro il muro di ipocrisia che regna nella famiglia del marito Brick (Vinicio Marchioni). Quest’ultimo, schiavo dell’alcol a causa del disgusto per l’ipocrisia che lo circonda, non sembra amarla né desiderarla. Anzi, spesso non la sopporta. Suo fratello (Francesco Petruzzelli) e sua cognata  (Clio Cipolletta) sfornano figli a ripetizione e agiscono per assicurarsi la cospicua eredità del padre di lui (Paolo Musio), che non sa ancora di avere un cancro. Maggie vorrebbe concepire un erede per non essere buttata giù dal tetto che scotta sopra una casa che brucia, che pure ha conquistato con fatica. Ma oltre alla posizione sociale le sta a cuore anche l’amore e per questo finge di aspettare un figlio da Brick. Lo annuncia mettendosi a carponi come i gatti, posizione che assume mentre pronuncia diverse battute chiave. In mezzo a tutto questo riemerge il passato, con l’amicizia di Brick con Skipper, morto suicida e di cui si vocifera un’omosessualità condivisa proprio col primo.

Vittoria Puccini La gatta sul tetto che scotta
L’intreccio di sentimenti, falsità e conflitti è forte ed in grado di reggere la rappresentazione assieme alla buona prova di tutto il cast. L’amore e la felicità che Maggie insegue ostinatamente sono impossibili anche a causa dell’aridità e delle falsità della famiglia di Brick, che vive per i soldi e il successo. La prima parte dello spettacolo è tutta della Puccini in grande spolvero, una Maggie acida, insofferente, velenosa, dalla voce graffiata e graffiante come una gatta. Prova a far ingelosire vanamente Brick, ma lui desidererebbe addirittura che lei avesse un amante e si anima solo quando si parla di Skipper. La seconda parte vede al centro il confronto tra Brick e suo padre. “Ma che festa meravigliosa stasera!”, esclama quest’ultimo, quando in realtà tutti in famiglia si odiano, mentono, sono falsi e si combattono a suon di sarcasmi amari. Grande interpretazione, in questa parte centrale, di Musio e di Marchioni, il quale dialoga splendidamente anche su una gamba sola (Brick ha un piede rotto e ingessato per l’arco di tutta la storia). “La vita ci rende bugiardi. Io sono così poco vivo da dire la verità”. E gli scappa del cancro del padre. La risoluzione finale è l’annuncio di ciò alla madre (Franca Penone) e la bugia di una Maggie che in realtà non è incinta ma arriva addirittura a strappare a Brick un “ti ammiro” e a farsi spalleggiare contro le invettive del fratello di lui e della cognata. La scena di Dario Gessati ci porta nell’unico interno della camera da letto di Maggie e Brick, con un muro che in determinati frangenti si apre e lascia intravedere un po’ di vegetazione. La regia di Cirillo si mantiene efficacemente asciutta e conservatrice. Uno spettacolo ben orchestrato, con ottime caratterizzazioni forti del testo di cui sopra, che per due ore rapisce lo spettatore con interesse e divertimento.

Cristiano Esposito

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sabato 4 aprile 2015

“Comicissima sera show”: Pasqua da ridere al Diana di Napoli con Iodice e Schettino

Una Pasqua all’insegna della risata quella del teatro Diana di Napoli, con il meglio della comicità napoletana in formato cabaret sul palco. “Due cavalli di razza addestrati alla risata”, insieme per stima artistica reciproca. L’irriverenza, l’improvvisazione, il coinvolgimento del pubblico, l’eccentricità incontrollata di Peppe Iodice. La satira politica e sociale pungente ma alla portata di tutti, il punto di vista illuminante, la lettura esilarante delle storture dell’epoca in cui viviamo di Simone Schettino. In mezzo ai loro monologhi alternati la sottotraccia di Raoul che corteggia Nuvoletta Lucarelli, questi ultimi bersagliati dai due mattatori per i chili di troppo. E un valente corpo di ballo che esegue le coreografie di Anna Pisco.

Raoul apre le danze presentando alla stregua di un carrozzone da circo i protagonisti che calcheranno il palco, frusta alla mano. Dal momento in cui entrano in scena i due comici saranno risate fino alla fine dello spettacolo. Simone Schettino prevale nel monologo classico, Peppe Iodice sembra più a suo agio del collega negli sketch corali con Raoul e Nuvoletta, dove c’è da mostrarsi più buffi e sopra le righe. Schettino affronta l’argomento dei tempi che sono cambiati, condizioni meteorologiche comprese, dell’ossessione per la forma fisica, della nouvelle cuisine e del sesso. Le sue nuove battute includono gli ottanta euro di Renzi e il film “Cinquanta sfumature di grigio”. Ormai proverbiali le sue tirate in un crescendo di risate e ritmo fino all’apice della battuta finale. La simpatica verve di Peppe Iodice gli consente di poter dire verità anche scomode e di farsi gioco, simpaticamente, di chiunque presente in sala. Ma lui, artista di periferia che viene da Barra, sa prendere in giro anche sé stesso col medesimo effetto comico. Parla di crisi, di figli, di intellettuali (un argomento che è da tempo il suo cavallo di battaglia) e scende in platea per trasformarsi in uno spettatore e ridicolizzare come da tradizione l’esibizione canora di Raoul.

Due tipi diversi di comicità che dimostrano di poter convivere brillantemente, due artisti che con grande intelligenza si impegnano in quello che sanno fare meglio. Oggi si richiede spesso l’artista polivalente, loro intelligentemente preferiscono migliorarsi continuamente nel proprio campo. E fanno bene, questi due signori della comicità che si stimano e che per un’esigenza artistica hanno deciso felicemente di condividere il palco, se non altro “per risparmiare i soldi della benzina”, visto che già prima si andavano a vedere l’un l’altro. Ne guadagna anche il pubblico che non può fare a meno di ridere a ripetizione davanti ad uno spettacolo speciale, scritto da Iodice e Schettino con Lello Marangio. In scena fino a lunedì 6 aprile a prezzi vantaggiosissimi. Da non perdere. 

Cristiano Esposito
 

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