venerdì 29 gennaio 2016

Rubini e il peso dell’amore e della sincerità ai giorni nostri

sergio rubini isabella ragonese maria pia calzone fabrizio bentivoglio provando dobbiamo parlare teatro
Lo spettacolo in scena in questi giorni al Diana di Napoli, scritto da Sergio Rubini, Carla Cavalluzzi e Diego De Silva, nasce per il teatro ed è stato in origine una prova aperta al pubblico. E’ diventato poi un film uscito nelle sale lo scorso novembre e adesso torna sui palcoscenici di tutta Italia. “Provando...Dobbiamo parlare” è un testo vivace, moderno, con qualche influenza francese, semplice ma pieno di guizzi intelligenti e interpretato da quattro valenti attori. Due coppie di amici diversissimi tra loro cacciano gli scheletri dall’armadio in una notte di litigi, confessioni, tradimenti, lacrime, scoppi d’ira e risate. All’alba la coppia che sembrava sfaldata in partenza si ricompatta, mentre l’altra, quella che pareva governata soltanto dall’amore, mostra insospettabili crepe e fa supporre il suo crollo definitivo nel finale. Il mondo animale che circonda i quattro osserva e punta il dito beffardo sulle piccolezze umane: così fanno un gatto invisibile che ogni tanto fa agitare i protagonisti ed un pesce rosso che commenta la vicenda con una saggezza al di sopra delle parti.

La regia di Sergio Rubini gioca sul metateatro per piccoli frangenti, ma la validità della rappresentazione potrebbe farne tranquillamente a meno senza perderci niente. Nulla di particolarmente originale ma un buon ritmo, quattro personaggi disegnati e scavati con sapienza, un monumentale Fabrizio Bentivoglio e ottime prove anche di Sergio Rubini, Maria Pia Calzone e Isabella Ragonese. L’appartamento romano con terrazza ci viene riportato da Luca Gobbi senza separazione tra le varie stanze, con un velario trasparente e gli ambienti illuminati singolarmente di volta in volta. In questa commedia trovano spazio tante cose: la politica, l’amore, la sincerità, l’ipocrisia, l’amarezza della verità, l’arte, la borghesia e l’intellettualismo. L’amore basta sempre e comunque? E quanto è indispensabile e opportuna la sincerità a tutti i costi? Le risposte che dà la messa in scena sembrano riscontrare il gradimento del pubblico, che si ritrova in molto di ciò che vede e ride tanto. E probabilmente ride tanto, non sempre in maniera consapevole, anche di sé stesso.

Cristiano Esposito
 
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giovedì 21 gennaio 2016

Il paradosso dei nostri tempi: Gospodin-Santamaria sbarca al Bellini di Napoli

Gospodin è un personaggio moderno che guarda il mondo sottosopra, così come troviamo Claudio Santamaria all’apertura del sipario, disteso con la testa penzolante. Nei suoi dialoghi con Federica Santoro scorgiamo l’incomunicabilità dei nostri tempi, dove ognuno risponde all’altro parlando di cose diverse perché non lo stava ascoltando. Il tormentone dispregiativo verso i “borghesucci” manifesta la sua insofferenza per il capitalismo. Ma non è certo facile vivere davvero in maniera anticonvenzionale: Gospodin prova a evitare i marciapiedi ma ben presto è costretto a fare dietrofront per non finire travolto dalle auto. Elabora allora un suo dogma, eliminando dalla sua vita i soldi, le proprietà, le partenze e le decisioni. Vive di baratti per sottrarsi al sistema, possiede una valigetta piena di denaro che non utilizza e non regala ai suoi conoscenti, pur non riuscendo in nessuna maniera a disfarsene. Arriva poi all’assurdo dell’assurdo, che riesce a spiegare con le sue motivazioni: in galera trova tutto quello che cercava, la libertà che inseguiva da tempo, realizza i principi che sembrava tanto difficile applicare all’esterno. Gospodin è un uomo libero in galera: si tratta pur sempre di un paradosso spettacolare, ma capace di instillare nella mente degli spettatori qualche riflessione importante da un punto di vista originale.

Il testo, dell’autore tedesco Philipp Löhle, scandaglia in maniera corrosiva alcune facce della nostra società e assieme al protagonista tragicomico ci presenta altri personaggi bizzarri, resi brillantemente anche da Marcello Prayer. Le scenografie in graphic animation e videomapping di Lorenzo Bruno e Alessandra Solimene vengono sfruttate con alcune brillanti interazioni di Gospodin e ci restituiscono efficacemente una metropoli europea qualunque. Il tutto in un racconto simbolico ma che sa parlare un po’ di ognuno di noi, semplice, col quale si ride e si pensa. E in cui Santamaria si dimostra pienamente a suo agio, sfoggiando diverse sfumature interessanti. La regia di Giorgio Barberio Corsetti imprime un buon ritmo e la giusta misura ai tanti quadri brevi che si susseguono. Le scene sono sue e di Massimo Troncanetti, i costumi di Francesco Esposito, le luci di Gianluca Cappelletti.

Cristiano Esposito

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domenica 17 gennaio 2016

“Servo per due”: Favino tra Goldoni, Fellini e gli anni ‘30

Una riscrittura ibrida tra farsa, commedia dell’arte, slapstick, stand-up comedy, varietà e musical con al centro quanta più energia possibile. E’ questo e molto altro “Servo per due”, spettacolo prodotto da Gli Ipocriti e dal gruppo Danny Rose, in scena in questi giorni al Diana di Napoli. Un’opera che nasce dalla penna di Carlo Goldoni ("Il servitore di due padroni") nel lontano 1745 per l’attore veneto Antonio Sacco, sulla falsariga del copione francese “Arlequin valet de deux maitres”. E che è stata recentemente riadattata dall’inglese Richard Bean, debuttando al National Theatre di Londra nel 2011 col titolo di “One man, two guvnors”. Pierfrancesco Favino, Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder si sono basati su quest’ultima versione, scegliendo di ambientare la vicenda a Rimini nel 1936. Un Goldoni un po’ alla lontana, insomma, non certo quello dell’Arlecchino di Strehler (“Arlecchino servitore di due padroni”). Il protagonista (Favino) qui si chiama Pippo (solo il personaggio di Clarice mantiene il suo nome originario) e di quella maschera conserva soprattutto le movenze e i gesti tradizionali. Il suo alter ego Pasquale è napoletano così come alcuni stilemi della rappresentazione. Di uno spettacolo del quale è sacrosanto non svelare niente vi diciamo soltanto che la trama si alimenta degli equivoci cui Pippo va incontro trovandosi a dover servire due padroni. Equivoci che partono fin dalla prima battuta che Favino recita davanti ad una foto di Mussolini. Irriverente e stupido, Pippo dovrà prima pensare a vincere la fame e poi a conquistare il cuore di una vivace donzella. Il tutto inframmezzato dalle godibili canzonette anni ‘30 eseguite dal vivo dal quartetto “Musica da ripostiglio”.

Favino, amatissimo dal pubblico, è messo in grande risalto ma non siamo di fronte ad uno one man show; non è sempre presente in scena e ogni attore ha un suo spazio adeguato. Interagisce notevolmente con il pubblico, il quale entra nella narrazione e nel processo creativo (ma la quarta parete viene abbattuta ripetutamente anche da altri attori), improvvisa e si rivela un ottimo “Arlecchino jazz”, come l’ha efficacemente definito qualcuno. La regia firmata da lui insieme a Sassanelli ha inteso dar vita ad uno spettacolo comico, popolare e leggero ma con qualche richiamo di un certo livello. Si spazia infatti da Gigi D’Alessio e Fellini, con la nave Rex di “Amarcord” (lungometraggio ambientato tra il 1932 e il 1933) a trasportare il suo carico di nostalgia. C’è Wanda Osiris, il trio Lescano e c’è spazio anche per inserire, negli anni dell’Italia fascista, i “finocchi” e la bisessualità dichiarata di Rachele. Le due ore abbondanti che a qualcuno sono sembrate eccessive scivolano in realtà abbastanza lisce, anche se la narrazione risulta più debole nella seconda parte. Una produzione di qualità e quantità che conta su diciassette attori e quattro musicisti. In scena con Favino gli ottimi Anna Ferzetti, Bruno Armando, Fabrizia Sacchi e Paolo Sassanelli.

Cristiano Esposito

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giovedì 7 gennaio 2016

“La parola canta”: Toni e Peppe Servillo e quel teatro che si fa musica

In questo loro ultimo lavoro i fratelli Servillo riescono davvero a far cantare la parola, come indica il titolo dello spettacolo. Ed è una parola inscindibile dalla musica del virtuosissimo Solis String Quartet, una parola che canta (e talvolta urla) Napoli, la sua arte autentica, il suo dolore lacerante, la sua vita incontenibile, la sua miseria e il suo splendore inarrivabili. Ne “La parola canta”, scrive Toni Servillo, “il teatro si fa musica e la musica si fa teatro” e autori di ogni epoca (Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, E. A. Mario, Libero Bovio, Enzo Moscato, Mimmo Borrelli, Michele Sovente e tanti altri) incrociano le loro opere, che appaiono come un unicum verace e pulsante autentico sangue partenopeo. Peppe e Toni Servillo si alternano nell’omaggio ad una Napoli che ha alimentato la loro creatività e la loro capacità, ravvisabile anche in questo caso, di far vedere nitidamente alla platea ciò che essi raccontano soltanto a parole. Peppe canta quasi sempre con un vibrato accentuato, impiega una grande mimica e interpreta i pezzi facendoli vivere nel profondo di chi ascolta. Toni spazia in una gamma di toni ricchissima: inveisce, impreca, urla, sussurra, parla le canzoni e canta le parole, recita tutto d’un fiato e sfoggia maestria di tempi comici quando arriva il turno del poemetto di Eduardo “Vincenzo De Pretore”.

Le voci dei due illustri fratelli si sovrappongono per la prima volta sul finale, in “Dove sta Zazà”, replicando poi nel corso dei generosi bis che terminano con il brano più antico proposto in questa rappresentazione: “Te voglio bene assaje”, scritto da un ignoto nel 1839. Lunghi applausi a scena aperta, oltre che per i due protagonisti, anche per Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio al violino, Gerardo Morrone alla viola e Antonio Di Francia al violoncello. La tradizione partenopea viene originalmente miscelata e riscritta anche da loro, attraverso un suono che sembra provenire da una ben più nutrita orchestra. Un teatro popolare ma colto e di elevata qualità, che fa risplendere in maniera accecante la luce meravigliosa di una letteratura, senza téma di retorica, unica al mondo.

Cristiano Esposito
 
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