giovedì 28 marzo 2013

La "Monnezza" e quella nottata che non passa mai

"Monnezza" è uno spettacolo che non può lasciare indifferenti. Vuoi per la travolgente comicità nera, vuoi per l'inquietante problematica sociale che solleva, vuoi per la bravura degli interpreti. A Napoli la spazzatura è un magico, inimmaginabile filo rosso che lega tra loro la famiglia, il lavoro, la chiesa, la camorra e la politica. Lo spiega bene Francesco De Filippo nel suo libro intitolato appunto "Monnezza", utilizzato da Carmine Borrino di un adattamento teatrale testimone del tempo che viviamo. Infondo il regista Peppe Miale aveva proprio quest'obiettivo: raccontare una storia drammatica senza farla sembrare una delle tante, già sentita e risentita, senza lasciare indifferenti gli spettatori. Provando a smuovere almeno una coscienza, con la sfrontatezza che solo il teatro consente. Con la certezza che "la coscienza e la monnezza sono quanto di più distante possa e debba esistere". 

La trama vede protagonista una coppia di coniugi e la loro storia d'amore durante i quindici anni dell'emergenza rifiuti a Napoli. Gerardo e Antonietta, appena sposi, intravedono nella periferia e nelle vantaggiose offerte che propone la possibilità di vivere in una casa grande ed economica. Ma la monnezza non tarderà a diventare protagonista, tra chi ne trae vantaggio con manovre losche e chi, magari inconsapevolmente connivente, ne subisce le nefaste conseguenze. Attorno alla coppia vivono insomma vari personaggi stereotipo afferenti al lasso di tempo che va dal 1989 al 2006. Tante, troppe persone in quegli anni hanno probabilmente agito più per l'immediata convenienza che per una più opportuna lungimiranza. Ad esempio anche solo per evitare di pagare la tassa sui rifiuti. Emerge chiaramente l'esigenza di una nuova coscienza collettiva di cui speriamo possano beneficiare i nostri figli. Ad inizio spettacolo, con Gerardo e Antonietta in ospedale al capezzale della figlia ammalata di chissà cosa a causa della monnezza, la mente vola automaticamente alla "Napoli milionaria" di Eduardo. La nottata, a distanza di oltre sessant'anni non è mai passata, e chissà se e quando passerà; la speranza con gli anni perde vigore e noi siamo sempre più colpevoli e complici. I due genitori in attesa nel nosocomio si chiedono perché tutto ciò debba capitare proprio a loro e ci fanno capire quanto siamo duri di comprendonio e come non vogliamo riconoscere il male nemmeno quando ci è già entrato in casa. Eppure la videoproiezione alle loro spalle è emblematica: "Non ce ne siamo manco accorti e simm'addiventati africani. Siamo scivolati verso sud mentre pensavamo di stare fermi. Nuje simm' Gaza e nuje siimmo Korogocho. Facimmo 'a morte dei tonni, chiusi nell'ultima gabbia ce manca ll'aria". Sversamenti illegali, istituzioni complici, speculazioni sulla pelle della povera gente. Serve una nuova coscienza collettiva, dicevamo: ed è da luoghi come il teatro che può e deve partire l'impulso a cambiare qualcosa, ad invertire la rotta verso il baratro in cui ci stiamo dirigendo.

Monumentali Ernesto Lama e Rosaria De Cicco tra gli attori, passano con disinvoltura dal comico grottesco al serioso drammatico con lo stesso, ottimo, risultato. Grande interpretazione anche di Agostino Chiummariello, e non sono da meno i vari Gennaro Silvestro, Federica Altamura, Ivan Fiorenza, Christian Parisi e Laura Zaccaria. Essenziali ma d'effetto le scene di Tonino Di Ronza, così come le musiche di Massimo D'Ambra.

Cristiano Esposito
Condividi

sabato 23 marzo 2013

Cosa non si fa per un piatto di “Maccarune”: Saltarelli e Schiano in scena al Piccolo Bellini di Napoli

Il cibo e l’atto del mangiare nella loro accezione più meccanica e simbolica sono al centro di “Maccarune”, testo di Luciano Saltarelli che sceglie di raccontare Napoli attraverso surreali e grotteschi personaggi inseriti in una trama noir. Proprio la cucina, grande tradizione e al tempo stesso stereotipo napoletano, viene dissacrata, ribaltata, svuotata ed è pretesto per parlare di una fame atavica e immotivata, che conduce ad azioni scellerate e disumane. Si arriva a manipolare, capovolgendone il colore, battute celebri da “Miseria e nobiltà”, che pure di fame parlava.

Ferdinaldo e sua moglie Rosanda per risollevare le proprie condizioni economiche decidono di raggirare il sempliciotto Gennargo, che abita sullo stesso pianerottolo. Durante un pranzo, con l'aiuto di Antoniettella, ingenua ragazza presa da poco a servizio, convincono il timido amico a cedere loro un magazzino avuto in eredità dalla madre da poco defunta, con la scusa di volervi aprire in società con lui un ristorante. Dopo aver a fatica convinto Gennargo a firmare la cessione del locale, inscenano una movimentata e pericolosa giornata nel futuro ristorante per dissuadere il pavido amico dallo stare nel locale. Durante la goffa messa in scena Ferdinaldo, fortuitamente, uccide Gennargo. Nascosto il corpo nella cella frigorifera, sopraggiunge inaspettato Cirenzo, fratello gemello di Gennargo e uomo di malavita, che, inseguito da un killer, si rifugia proprio a casa dei due coniugi. Incalzato dal sicario Cirenzo si nasconde nel congelatore e, solo dopo essere sfuggito all'agguato, s'accorge della tragica morte del fratello. Decide quindi di sostituirsi in tutto e per tutto al gemello, costringendo i due coniugi a cibarsi del cadavere, sia per vendetta sia per disfarsi definitivamente del corpo. Dopo qualche tempo gli eventi si capovolgono. Cirenzo e Antoniettella sono diventati amanti e proprietari del ristorante, Rosanda vedova di Ferdinaldo, tragicamente morto per una sincope.

Maccarune gioca con la fantasia e le elaborazioni oniriche, a detta dell’autore per sfuggire da una realtà che è “noiosa successione di eventi prevedibili e tappezzati di mediocrità”. Purtroppo la vicenda appare a tratti molto aderente alla nostra realtà attuale, sempre più anarchica e surreale, a Napoli come altrove. La cattiveria e il cinismo imperanti riempiono i personaggi in scena e i loro pancioni posticci, ma qualcosa sembra di averlo già visto o sentito anche nella vita di tutti i giorni. Saltarelli diffida dal cercare il messaggio e il senso veicolato dall’autore, perché per lui scrivere questa pièce teatrale è stato semplicemente come mettere per iscritto un sogno, dimenticato già pochi minuti dopo il risveglio. Rimane allora solo da evidenziare un grande Giampiero Schiano in un triplice ruolo, gran mattatore con tre caratterizzazioni riuscitissime e prova di grande eclettismo. E la bellezza del linguaggio, mai banale, a tratti in rima grottesca e affascinante. Buona prova anche degli altri interpreti in scena: Antonella Raimondo, Luciano Saltarelli e Manuela Schiano Lomoriello. Uno spettacolo tra pulp, farsa e tragedia, che diverte e sorprende, con tanto di estrazione finale di un pacco di pasta per gli spettatori. Cosa non si fa oggi per un piatto di maccheroni; dopo avercelo mostrato in scena gli attori in scena ne regalano un po’, magari come invito a placare la fame atavica ed immotivata di cui sopra.

Cristiano Esposito
Condividi

venerdì 22 marzo 2013

La cultura che diverte: gli irresistibili Oblivion in scena al Bellini di Napoli

Gli Oblivion sono cinque artisti bolognesi, cantanti e attori, cabarettisti e comici, resi celebri dalla rete, che da quattro stagioni attraversano l’Italia in lungo e in largo con il loro teatro genialmente originale. Resi celebri soprattutto tra il giovane popolo della rete dal video “I promessi sposi in dieci minuti”, caricato nel 2009 su YouTube e arrivato ormai a oltre due milioni e ottocentomila visualizzazioni, i cinque ragazzi raccolgono successo e consensi anche nelle loro duecento e più repliche nei maggiori teatri italiani. Arriva poi anche la televisione, con gli Oblivion ospiti fissi a Zelig e beniamini di migliaia di studenti con le loro parodie culturali di Shakespeare, Dante, Pinocchio e così via. Al contempo impazzano nelle scuole italiane le “lectio dementialis” sui Promessi Sposi e un cofanetto libro più dvd, “I Promessi Esplosi”, tra il didattico e il comico.

“Oblivion Show 2.0 – il sussidiario”, con la regia di Gioele Dix, è un irresistibile compendio di musica e comicità che sa essere contemporaneamente commedia musicale e rivista, ma anche parodia e cabaret. Evoluzione efficace del precedente show, riesce in combinazioni del tutto inaspettate come quelle tra Lady Gaga e J.S. Bach, Vasco e Mozart, Massimo Ranieri e i Beach Boys, i Queen e Gianni Morandi. Addirittura tra Zucchero e il Papa. Risalta una comicità vecchio stile, una lucida ma sempre garbata satira di costume, un’irriverenza elegante, brillanti intrecci giocosi di musica e parole. Il tutto accompagnato da voci e interpretazioni straordinarie, con grande eclettismo e padronanza scenica, tra Gaber e il Quartetto Cetra, Rodolfo De Angelis e i Monthy Python. Esecuzioni canore complesse quelle di questi cinque madrigalisti post moderni, che raccontano storie epiche o semplici avvenimenti quotidiani giocando continuamente con la musica. Massacrano canzoni e testi famosi per ricomporli in modi surreali, pescando divertenti e impensabili assonanze.

Uno spettacolo che è un vero e proprio sussidiario diviso in materie: dal solfeggio alla storia, dalla grande letteratura italiana alla poesia. Numerosi spunti geniali come gli audio-trailer di poesie classiche, gli scout canterini interrotti continuamente da un disturbatore che ne mette in subbuglio le canzoni, le canzoni per non udenti, parodie deliziose, accostamenti illuminanti. Di grande forza anche la riflessione sul Burlesque, le radiocronache dei conflitti armati in “Tutto il campo minato per minato” e la lucida analisi di “Quando c’era lui”, incentrata sul ventennio fascista. Ultima chicca sul finale la satira sul radical chic tanto in voga oggi, quell’esercito degli I-pad vacuo e frivolo. Uno sguardo beffardo ma acuminato, parodico su una società che assomiglia inquietantemente sempre di più a una parodia. E’ l’irresistibile mondo degli Oblivion, sul cui protrarsi del successo scommettiamo ad occhi chiusi.

Cristiano Esposito
 
                                             
Condividi

giovedì 14 marzo 2013

La partita della vita: "La nostra unica fede", in scena al Piccolo Bellini di Napoli


Uno spettacolo semplice, compresso, che induce diversi spunti di riflessione come flash in una notte qualunque fuori ad uno stadio San Paolo buio e deserto. Ed invece la vicenda è ambientata nel giorno della finale, della partita che sublima una stagione di lotte, tafferugli e sudore. Tre tifosi. La partita più importante. Tre biglietti che non arrivano. La squadra, il campo, la trasferta, la fedeltà ai propri colori. “La nostra unica fede” è tratto da scritti di autori inglesi come Keeffe, Hornby, Hooper e Welsh. Spesso i problemi della classe operaia si fondono con la passione smodata per il calcio, che a tratti fa perdere di vista la reale scala di priorità nella vita oppure fa mettere tutto nelle mani di una “famiglia” che, quella sì, mai potrà tradirti o abbandonarti. Marco Mario De Notaris, Giampiero Schiano e Tonino Taiuti mettono in scena la travolgente tragicomicità della passione calcistica, dell’attesa per una vittoria che può durare anche anni e che può non arrivare mai, rinnovata dopo ogni sconfitta egualmente come dopo ogni vittoria. Un linguaggio universale quello dei tifosi accaniti, cosa che rende relativamente semplice trasferire a Napoli i personaggi senza tradire i modelli originali. Il calcio e il tifo si dimostrano valida metafora per parlare di operai, politica (illuminante il parallelo col comunismo), lavoro, sempre in un’atmosfera di luci crepuscolari, al di qua del muro da abbattere e osservato con occhi sognanti, perché “è bello far parte di qualcosa, essere uniti, non come in fabbrica”. Ma i tre protagonisti restano fuori, mentre la storia la stanno scrivendo là dentro, senza di loro. Il calcio in realtà non ha bisogno di noi, al massimo solo dei nostri soldi. Noi però in qualche modo dobbiamo pur sfogare, e “voi non ci potete ignorare”. Altrimenti sfondiamo i cancelli.
La regia dello spettacolo, in scena fino a domenica 17 marzo 2013 al Piccolo Bellini di Napoli, è di Simone Petrella.


Cristiano Esposito
 
                                                   
Condividi

lunedì 11 marzo 2013

Simone Schettino va "oltre" con riflessioni e risate

E’ un Simone Schettino sempre più maturo artisticamente quello che, dopo quindici anni di teatro, battezza il suo nuovo spettacolo al Cilea di Napoli. Due ore di fragorose risate pulite e intelligenti accompagnano questo suo nuovo “Se permettete vorrei andare oltre”, ambientato in un camerino prima di una serata con Roberto Capasso che interpreta un direttore di scena e Giuseppe Mosca un ammiratore troppo invadente. Schettino non ha voglia di andare in scena, appare depresso e si domanda: “la gente non vuole o non deve pensare?”. Ecco allora un’esibizione che si tiene davanti ad un pubblico ideale, in un retropalco oltre il cui muro c’è l’altra platea, quella da narcotizzare e far ridere senza spessore. Questa volta più che mai il comico di Castellammare di Stabia prova a non farsi influenzare dai gusti di chi ascolta, tirando in ballo argomenti  e pensieri scomodi, invitando a non fermarsi alle apparenze o a quello che i potenti vogliono farci credere.

Un tipo di comicità che non è una novità per Schettino, che proprio al Cilea nel 2001 debuttò poco dopo l’attacco alle torri gemelle, parlandone alla stessa maniera. Nessun pericolo di un Grillo bis, tiene a precisare, nessun sermone. Si va ben oltre la politica, la sua è una lotta contro il disinteresse, contro il torpore in cui la gente pare lasciarsi addormentare. Uno sguardo acuto, verace ma mai volgare, senza falsa retorica, sulla situazione italiana e napoletana, una verve che in teatro crea un’atmosfera familiare senza servirsi di facili sfottò indirizzati alla platea. Schettino discetta dei problemi attuali, di alta finanza, politica, ecologia, sanità, lavoro, pensioni, euro, crisi, moda, tecnologia, sesso, cucina e diete. Sui temi meno leggeri non entra più di tanto nello specifico e probabilmente nemmeno potrebbe (è pur sempre un comico, sarebbe bene mantenere sempre i ruoli in questa maniera) ma almeno solleva coraggiosamente il problema, ponendosi e ponendo interrogativi e ipotizzando le cause scatenanti. Avercene di comici che prediligono un pubblico pensante come lui, che in questa occasione capovolge l’imperativo di divertire e distrarre per dar priorità al ridere riflettendo.

Simone Schettino tiene il palco egregiamente, da solo, senza effetti speciali, musiche o scene sfavillanti. E’ un cabarettista di gran mestiere, molto legato al dialetto partenopeo ma che probabilmente meriterebbe un successo ancora maggiore anche a livello nazionale come degno rappresentante della Napoli più autentica e sana. Il suo punto di vista è leggero ma sempre originale e illuminante. Con la stessa leggerezza auspica poi, dopo il bis dedicato al calcio che pure narcotizza un buon numero di italiani, un ritorno a quella solidarietà che rendeva noi italiani così unici nel mondo. Apprezzabile la dedica dello spettacolo al critico Franco De Ciuceis, recentemente scomparso, molto stimato da Schettino.

Cristiano Esposito

 
           
Condividi

mercoledì 6 marzo 2013

“Sogno e son desto”: l’inno alla vita di Massimo Ranieri all’Augusteo di Napoli


Un artista straordinario, per il quale il tempo non passa mai e si fa strada il dubbio che ci sia da qualche parte nascosto a Santa Lucia, rione di Napoli da cui proviene, un ritratto ad invecchiare al posto suo. Un affetto smisurato e incondizionato quello del pubblico napoletano per Massimo Ranieri, che all’entrata in scena prende applausi e ovazioni come se le due ore di esibizione fossero appena trascorse e non stessero per iniziare. Tutto giustificatissimo per un artista vero, come ce ne sono sempre meno, che porta alto il nome di Napoli in Italia e nel mondo. Una voce eccezionale e una capacità di vivere e trasmettere le canzoni che interpreta, rendendole ancora più suggestive ed emozionali: più belle insomma. E la sensazione, spettacolo dopo spettacolo, è che potrebbe cantare qualunque cosa con un talento così. 

Il recital “Sogno e son desto - Chi nun tene coraggio nun se cocca ch’e femmene belle”, scritto a quattro mani con Gualtiero Peirce, gira l’Italia con successo dal 2009 evolvendosi ed arricchendosi sera dopo sera. Il “cantattore” napoletano, dopo un doveroso omaggio a Lucio Dalla nel giorno del suo settantesimo compleanno, inizia col celebrare con intensità poetica il coraggio degli "ultimi", di chi vive una vita umile, normale, costretto a barcamenarsi tra le mille difficoltà quotidiane. E talvolta ne esce sconfitto, ma sempre con dignità e coraggio di sognare, come lo “Zappatore” di Libero Bovio e Ferdinando Albano. Si prosegue raccontando la vita e l’amore con canzoni e monologhi degli artisti più disparati: Claudio Baglioni, Luigi Tenco, Roberto Murolo, Antonello Venditti, Renato Carosone, Charles Aznavour, Lucio Battisti, Nino Taranto, Fabio Concato , Salvatore Di Giacomo, Domenico Modugno, Giorgio Gaber, Pino Daniele (splendida la versione di “Je so’ pazzo”) e Fabrizio De Andrè. Non mancano momenti poetici con i versi Shakespeare e Alda Merini e divertenti aneddoti di vita personale e artistica di Massimo Ranieri.

Arrangiamenti illuminanti, sempre freschi e godibili (gli stessi che gli hanno permesso negli ultimi anni di riportare in auge le canzoni della tradizione classica partenopea) accompagnano la sua voce calda: ma come detto Ranieri non si limita a cantare, vive i brani che esegue, li recita, li interpreta e impersona. Il tutto arricchito da divertenti digressioni da cui estrapolare sempre qualche buon insegnamento figlio dell’antica saggezza napoletana. Massimo Ranieri avverte, e come non potrebbe,  il calore dei suoi concittadini e ringrazia con decine di inchini, regalando come bis i brani più amati come “Se bruciasse la città”,“Rose rosse”, “Erba di casa mia” e l’immancabile “Perdere l’amore”. Ottimo il disegno luci, parte integrante della magia dello spettacolo, e di gran talento i musicisti, con i fiati di Donato Sensini e le chitarre di Max Rosati una spanna sopra gli altri.

Cristiano Esposito
 
                               
Condividi

martedì 5 marzo 2013

L'amor che non ci fa estinguere, secondo Nando Paone e Cetty Sommella

Nando Paone torna in teatro splendido protagonista di una commedia di Cetty Sommella da lui stesso diretta. Un testo particolare e lucidamente coraggioso questo “Se ci amiamo non ci estinguiamo”, che spiazza positivamente il pubblico che si aspettava un Paone solo macchiettistico e strambamente divertente, quello del sodalizio con Vincenzo Salemme per intenderci. Qui l’attore napoletano suscita risate ma anche riflessioni di un certo spessore, in una vicenda che a tratti ricorda il ciclo di commedie eduardiane tutte incentrate sugli psicodrammi e sui conflitti familiari (vedi “Sabato, Domenica e lunedì”, “Mia Famiglia” o “Bene mio e core mio”). Commedie amare, in cui spesso di comico resta solo il retrogusto. E’ quello che accade soprattutto nel secondo atto di “Se ci amiamo non ci estinguiamo”. Una rappresentazione comica ma al tempo stesso fortemente venata di malinconia, un’analisi spietata di una famiglia come tante altre. 

Franco (Nando Paone) e Milena (Adele Pandolfi) sono due anziani coniugi che vivono ormai stancamente la loro vita, tra medicine, televisione e solitudine. In una sera come tutte le altre, davanti ai soliti programmi televisivi, Franco ha un virgulto di vitalità e decide di rompere gli schemi, stanco di vivere come un vecchio. Dopo diversi tentennamenti Milena decide di assecondarlo, prima per amore e poi anche per sua convinzione. Ed ecco che i due si lasciano andare a “trasgressioni” come un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino, una vaschetta di gelato, un sigaro. Arriva il confronto con i giovani, i loro figli in questo caso. Luca (Biagio Musella), ragioniere nevrotico, crede che il padre sia ormai malato di Alzheimer e chiama la cugina (Anna Cimmino) per un’inutile visita. Luisa (un’ottima Annarita Vitolo), altrettanto nervrotica e in psicanalisi da molti anni, ci aggiunge la notizia di essere incinta di un uomo che non è suo marito. Franco provoca i suoi figli, prova a smuoverne le coscienze ma ne otterrà solo confessioni di disagio e disistima di vecchia data. Ci si accusa a vicenda di non essere buoni figli e buoni genitori.

E’ la rivalsa dei vecchi sui giovani, in una situazione ribaltata dove sono i genitori che tagliano (o provano a tagliare) il cordone ombelicale, che gridano la loro solitudine e il loro desiderio di non morire prima del tempo. In fondo durante tutta la vita occorre soffrire e rischiare per essere felici, la vita è vita ed in questo uguale per tutti. Franco e Milena desiderano solo non morire già morti, non tradire la vita per colpa della morte che pure dovrà arrivare. La vecchiaia, quella indotta e non quella biologica, uccide prima del tempo se ci si lascia andare. La leggerezza del primo atto muta in uno spessore ben diverso nel secondo, ed è lì che godiamo di un grande interpretazione di Nando Paone. Ad un tratto la percezione è che i figli, con le loro nevrosi e i loro isterismi, siano messi peggio degli anziani genitori, anche se ognuno pensa che siano gli altri a non stare bene. “Un padre, per essere un buon padre, deve avere dei buoni figli”; ma in ogni caso è l’amore che garantisce la sopravvivenza della specie, che fa girare il mondo, che non ci fa sentire soli, che insomma ci da un senso e ci fa esistere nonostante tutto il male che c’è. Doveroso e commovente l’omaggio finale allo scenografo Tonino Festa, appena scomparso.

Cristiano Esposito
 
                                
Condividi

venerdì 1 marzo 2013

Vincenzo Salemme ne sa una più del diavolo...custode

Reduce dal grande successo del teatro Olimpico di Roma, con 32 mila spettatori in sei settimane, la nuova fatica teatrale di Vincenzo Salemme si appresta ora a calcare il palcoscenico del Diana di Napoli. "Il diavolo custode" è uno spettacolo atipico, vario, una commedia che abbatte la quarta parete, guarda negli occhi la platea, la interroga e interagisce con essa. Grazie alla bravura degli attori e dell'autore tutto sembra svilupparsi in tempo reale davanti agli spettatori, come fosse improvvisato. Salemme impersona il diavolo custode di Gustavo (Domenico Aria), uomo la cui onestà pare metterne in difficoltà la sussistenza e di conseguenza l'equilibrio familiare. Insieme ad un esilarante assistente "diavulillo" (Nicola Acunzo), di origini calabresi, sale sulla terra per dare una seconda possibilità al suo assistito invitandolo a reagire ai suoi fallimenti. La moglie Teresa (Floriana De Martino), suo fratello Amilcare (Giovanni Ribo') e la figlia Lucia (Raffaella Nocerino) portano Gustavo all'esasperazione, fino a chiedergli di andarsene di casa.

Una trama esile, quasi un pretesto per dar sfogo all'arte del mattatore Salemme, che ripropone personaggi e gag già ascoltate a teatro come al cinema, come quando veste i panni del postino o dell'uomo medio con lo stuzzicadenti sempre in bocca. Sono i travestimenti del diavolo custode, che continua a irrompere nella vita di Gustavo per provare a smontarne gli schemi. Il pubblico applaude divertito anche grazie al fondamentale apporto del bravissimo Nicola Acunzo, che tiene su il ritmo con esilaranti elementi di novità. L'orologio che ruota in videoproiezione si arresta sul monologo finale di Salemme, che spiega alla platea quanto è importante riconquistare il tempo dell'anima e della vita. Un po' filosofo e un po' cabarettista nel discettare delle differenze tra uomo e donna, l'autore napoletano invita il suo pubblico a parlare senza timore col diavolo che è in ognuno di noi.
Le scene di Alessandro Chiti appaiono essenziali ma ben congegnate, con quinte che a seconda dell'illuminazione sono ora grate, ora un cielo puntellato di nuvole. Tutto il resto lo fanno le videoproiezioni sul fondale e pochi praticabili scorrevoli divisi a metà per farci entrare ora in casa di Gustavo ora nel suo fallimentare bar "Vespasiano". Vincenzo Salemme fa ancora una volta centro nel cuore del pubblico, con grande empatia, concentrandosi sui temi dell'attualità come la crisi, l'evasione fiscale, il consumismo, la velocità vuota del mondo odierno. Il palcoscenico rappresenta l'inconscio di Gustavo, dove un diavolo probabilmente creato dalla mente di quest'ultimo insinua un tarlo: fino a che punto oggi conviene essere onesti? Il consiglio finale di Salemme è quello di vivere il nostro tempo e quindi la nostra vita al meglio delle nostre possibilità, nonostante ci abbiano "rubato la libertà di sognare un mondo migliore".

Cristiano Esposito

Recensione pubblicata su Teatro.org al seguente link: http://www.teatro.org/spettacoli/diana/il_diavolo_custode_669_23181#recens
  
                                                    
Condividi